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Caro Monti, basta indugi: scenda in lizza

Caro pro­fes­sor Monti, tutti la stanno tirando per la giac­chetta. Troppi. Ma, nonos­tante sia una voce tra cen­tomila, mi per­me­tto di riv­ol­gerle un appello, privo di sec­ondi fini: rompa gli indugi e prima di Natale, una volta approvata la Finanziaria, annunci che scen­derà in lizza.

In che veste? Come punto di  rifer­i­mento di una lista com­posta di gente nuova, indipen­dente, desiderosa di cam­biare l’Italia. Non di moderati, tanto meno di con­ser­va­tori, ma una lista di riforma­tori, anche in modo rad­i­cale se serve. Si batta per vin­cere, senza trattare in anticipo, fac­cia come in Ger­ma­nia, in Gran Bre­tagna, in Fran­cia, dove al di là dei sis­temi elet­torali ogni soggetto politico si pre­senta davanti agli elet­tori con una pro­pria iden­tità e un pro­gramma. Poi si faranno le alleanze. Il rassem­ble­ment, così, avverrà attorno a lei senza una debil­i­tante trat­ta­tiva con cespugli cen­tristi o tutti col­oro i quali vogliono salire sul carro (il che, oltre tutto, farebbe cadere gran parte della novità che una lista Monti porterebbe nel panorama politico).

Non basta un mem­o­ran­dum o un’agenda che dir si voglia, perché non è ques­tione solo di con­tenuti né solo di polit­ica eco­nom­ica. L’Italia sta attra­ver­sando una nuova tran­sizione o se vogliamo la terza fase dell’infinita tran­sizione com­in­ci­ata con la caduta della prima repub­blica.

E’ aperta una ques­tione isti­tuzionale, etica, di forma dello Stato e di forma della polit­ica, di relazioni inter­nazion­ali. Occorre che questa fase tanto del­i­cata sia gestita nel modo migliore: né i par­titi esistenti né quelli in progress, sono in grado di farlo. E la nos­tra cos­ti­tuzione non affida poteri del genere a una figura terza, tanto meno al pres­i­dente della Repubblica.

Si pre­senti, dunque, annun­ciando “l’Italia che vor­rei”, un paese di gente per bene, orgoglioso del pro­prio ruolo, di quel che ha fatto di buono e può ancora fare (di meglio). Ci vuole del sano patri­ottismo come in Amer­ica o in Fran­cia, i due grandi Paesi riv­o­luzionari e demo­c­ra­tici. Punti tutto sul futuro, sol­leciti l’orgoglio con spir­ito kennedi­ano. Non guasta nem­meno un po’ di Roo­sevelt, sia Teddy il cam­pi­one della lotta al monop­oli sia Franklin Delano con le sue riforme sociali ed economiche (si pensi alle banche).

In Italia i suoi mod­elli sono chiari, Luigi Ein­audi che ha sfidato l’impopolarità con un risana­mento lacrime e sangue nel dopoguerra, pre­messa per il futuro mira­colo eco­nom­ico; e Alcide De Gasperi che ha sal­da­mente legato il Paese agli Usa e all’Europa.

Dica chiara­mente che il futuro dell’Italia è den­tro una Unione euro­pea anch’essa da rifor­mare nel pro­fondo. E’ inter­esse nos­tro, non segno di sud­di­tanza alla Ger­ma­nia. Così come è nos­tro interesse ridurre il deb­ito pub­blico. E’ lui che ci sot­trae sovran­ità, non Frau Merkel. Una famiglia indeb­i­tata non è padrona del pro­prio des­tino e ciò vale anche per uno Stato, lo spieghi con chiarezza agli  ital­iani intossi­cati dalla pro­pa­ganda.

L’euro non c’entra, per­ché è con la lira che il deb­ito è sal­ito dal 70 al 125% tra il 1979 e il 1992. E per restare a galla bisog­nava sva­l­utare la mon­eta ogni tre anni, impor­tando inflazione e dis­truggendo i risparmi. Fig­uri­amoci cosa accadrebbe se fos­simo costretti a uscire dall’euro.

L’Italia può recu­per­are il “decen­nio per­duto” solo se torna a crescere a un ritmo supe­ri­ore al due per cento l’anno in ter­mini reali. Uno sforzo che oggi sem­bra immane per­ché una volta caduti nella palude, è sem­pre più dif­fi­cile uscirne: la melma tende a trasfor­marsi in sab­bie mobili. Però sulla carta esistono tutte le con­dizioni, se gli ital­iani ritrovano lo spir­ito che li ha guidato fuori da altre grave crisi, come negli anni ’70 o negli stessi anni ’90. Hanno bisogno di fidu­cia e di credibilità.

Fac­cia della lotta alle cor­po­razioni la chi­ave della sua battaglia di rin­no­va­mento. Il Paese è bloccato dal groviglio degli inter­essi cos­ti­tuti, la polit­ica, le banche, i con­find­us­tri­ali, la buro­crazia statale, i sin­da­cati, le ammin­is­trazioni locali: tutte le isti­tuzioni attra­verso le quali la soci­età si strut­tura sono diven­tate roc­che inespugnabili dove i sig­nori dell’interesse pri­vato si bat­tono con­tro l’interesse pub­blico. La lib­ertà da questa dit­tatura del par­ti­co­lare è il primo com­pito di un gov­erno liberale.

E pro­ponga all’intera soci­età ital­iana un nuovo patto che abbia al cen­tro il lavoro. Lavo­rare meglio, lavo­rare tutti. Per questo è nec­es­sario sciogliere i lacci che legano il Paese.

Vinta la battaglia dello spread sui titoli di Stato, bisogna vin­cere le battaglie con­tro tutti gli altri spread che ci ren­dono più deboli rispetto ai nos­tri vicini: i servizi pri­vati e pub­blici, la pub­blica ammin­is­trazione, la sicurezza, la legal­ità, tutto quello che ci tiene al 79esimo posto su 145 paesi nell’indice della com­pet­i­tiv­ità elab­o­rato dalla Banca mondiale.

Il suo tal­lone d’Achille è il fisco per­ché l’aggiustamento, finora, è avvenuto soprat­tutto aumen­tando le imposte (e tagliando le pen­sioni). Lei non deve promet­tere nulla e non lo farà, non fa parte del suo stile. Ma può senza dub­bio impeg­narsi affinché, una volta rag­giunto il pareg­gio del bilan­cio, ogni euro in più vada a ridurre il carico fis­cale. Ciò è pos­si­bile facendo fun­zionare davvero la spend­ing review. Su 800 mil­iardi di spesa pub­blica, lei finora si è impeg­nato a ridurne otto. E’ possi­bile fare di più e meglio, spo­stando dalle entrate alle uscite cor­renti l’asse del risana­mento, come Mario Draghi ha più volte sollecitato.

Un patto per il lavoro, un patto fis­cale e un patto isti­tuzionale per rifor­mare lo stato e la polit­ica. Ecco i tre pilas­tri (per dirla con il gergo degli euro­crati). Con­tro il pop­ulismo si può cav­al­care la buona polit­ica, snella, come servizio. Den­tro questa riforma c’è il finanzi­a­mento pub­blico. L’abolizione è stata chi­esta per ref­er­en­dum e sarebbe bene pren­derlo sul serio. Ma non è da Monti cav­al­care l’estremismo. Forse potrebbe seguire la linea bri­tan­nica: finanzi­a­mento min­imo ai par­titi che non sono in grado di aut­o­fi­nanziarsi, come garanzia di rap­p­re­sen­tanza demo­c­ra­t­ica. Per tutti, trasparenza e pub­blic­ità dei finanziamenti.

Un pro­gramma ambizioso, che cer­ta­mente Monti da solo, con la sua for­mazione di ardi­men­tosi, non sarebbe in grado di real­iz­zare. Dovrà cer­care il con­senso, dovrà dis­cutere, negoziare. Nat­u­rale, l’arte del gov­erno è fatta così in qual­si­asi paese. Ma il pro­fes­sore può esserne il garante e l’esecutore, pro­prio per­ché la vera, grande inno­vazione è la volontà di chi­ud­ere con i veti che hanno bloc­cato persino gov­erni con mag­gio­ranze amplis­sime, come l’ultimo Berlus­coni. Non potrebbe farlo un gov­erno di sin­is­tra par­al­iz­zato da altri lacci e lac­ci­oli: la Cgil, le coop­er­a­tive, i gruppi di pres­sione più vari, gli ammin­is­tra­tori locali, e via di questo passo. E Pier Luigi Bersani non è Tony Blair che ha saputo super­are l’ipoteca delle Trade Unions sui ver­tici del par­tito laburista. Non può farlo, nat­u­ral­mente, un even­tuale Berlus­coni Tre (anche se le pos­si­bil­ità di un suo ritorno, oggi come oggi, sono min­ime). Non si tratta di scegliere il male minore. Si tratta, al con­trario, di pre­sen­tarsi al paese come l’unico che in questo momento sia in grado di gestire una fase di decantazione e mod­ern­iz­zazione. Poi la sin­is­tra potrà fare la sin­is­tra e la destra la destra. Come in tutte le democra­zie normali.


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