Siamo davvero sull’orlo di una guerra fredda digitale, come ha scritto l’Economist? L’immagine può sembrare azzardata, ma coglie nel segno. Si è chiusa con il botto la World Conference on International Communications (WCIT) convocata dall’ITU (International Telecommunication Union) – sotto gli auspici delle Nazioni Unite – per la revisione delle International Telecom Regulations, il trattato che presidia le reti telefoniche internazionali e la cui precedente formulazione risaliva al 1988.
Una conclusione che conferma le preoccupazioni della vigilia: già nei mesi che hanno preceduto l’incontro, anche attraverso la pubblicazione rocambolesca di documenti altrimenti riservati, emersero le discrasie sul ruolo che il trattato avrebbe dovuto giocare in merito alla regolamentazione di internet: da una parte coloro che ritenevano che la rete non potesse essere sottoposta a regole pensate per un altro mercato in una diversa fase storica; dall’altra, chi auspicava un maggior controllo dei governi sul web e sui suoi ingranaggi economici. Nel primo campo, si situavano con fermezza Stati Uniti e Unione Europea; la seconda fazione saldava insieme due diversi interessi: quello dei paesi autoritari a una più rigorosa vigilanza sui contenuti trasmessi; e quello a un sistema di tariffazione che, come nella telefonia tradizionale, imponesse al mittente di indennizzare l’operatore ricevente per la terminazione del servizio: un obiettivo, questo, condiviso dagli incumbent delle telecomunicazioni e dai paesi a forte emigrazione, che per decenni ne hanno ricevuto un significativo contributo al conto economico o al bilancio pubblico.
Il conflitto, latente per la maggior parte dei lavori, è deflagrato a poche ore dalla chiusura della conferenza, quando la presidenza ha calcato la mano per mettere ai voti una risoluzione – contro la consuetudine dell’ITU, che delibera all’unanimità. L’incidente diplomatico ha fatto da detonatore: ma l’esplosivo era stato accumulato durante le negoziazioni su temi come la stessa inclusione di internet nel trattato e come il ruolo dei governi – e dell’ITU – nel garantire la sicurezza delle reti e nel combattere i contenuti indesiderati, espressione che può riferirsi tanto allo spam quanto a materiale politicamente delicato. Degli oltre 150 Paesi che ne avevano il diritto, solo 89 hanno siglato il documento finale; 55 hanno rifiutato di aderirvi.
Quali saranno le conseguenze pratiche di questo trattato dimezzato? L’impatto sarà trascurabile nel breve termine, sia perché i Paesi che hanno firmato il trattato nella sua formulazione conclusiva dovranno in ogni caso affrontare una fase domestica di ratifica, sia perché parliamo della periferia di internet, ancorché di una periferia assai popolosa. Ma l’esito dell’incontro di Dubai testimonia che le pressioni per una restrizione delle libertà telematiche sono diffuse nella comunità internazionale e non sono destinate a svanire. Sono state arginate, non sconfitte. La sfida tra due inconciliabili concezioni della rete rischia, anzi, di radicalizzarsi nei due anni che ci separano dal prossimo appuntamento dell’ITU, già convocato per il 2014 in Corea del Sud. Il pericolo è quello di frammentare la rete, nella migliore delle ipotesi; nella peggiore, è quello di soffocarla.
“Il prezzo della libertà è l’eterna vigilanza”, ammoniva Thomas Jefferson. Già: ma come vigilare? Attraverso l’attività diplomatica, per cercare di disinnescare puntualmente le proposte perniciose? O giocando all’attacco, per promuovere una governance globale che spiazzi le opzioni indesiderabili? O ancora facendo saltare il banco dell’ITU, con il rischio di un effetto boomerang? Sono scelte assai delicate, che richiedono – accanto alla padronanza delle questioni tecniche ed economiche coinvolte – un’accesa sensibilità politica. Se non è una guerra fredda digitale, poco ci manca.
Massimiliano Trovato
Fellow, Istituto Bruno Leoni