La convivenza insolita di grande paura e grande speranza è il tratto caratteristico dell’America di queste settimane. A seconda di come si legge il Fiscal cliff prossimo venturo si può vivere questa fine anno in due modi completamente diversi.
Il primo modo è da ultimi giorni di Pompei (o dell’Avana di fine 1958, con Castro sulla Sierra sempre più vicino e il sipario che sta per calare per sempre sulla dolce vita). È un’atmosfera da fine regno in cui si salva chi può. Si vendono i titoli per realizzare gli utili finché ci sono e finché sono tassati al 15. Le società distribuiscono in fretta e furia i dividendi di tutto l’anno prossimo e fanno fuori tutta la cassa che possono. Si fanno fusioni acrobatiche per approfittare degli ultimi giorni di imposizione bassa. Si bloccano progressivamente gli investimenti. Qualcuno licenzia.
Una variante della lettura pessimista si concentra non tanto sugli aumenti di tasse quanto sul protrarsi dello stallo a tutta la prima metà del 2013. Ci sarà un accordo minimo, secondo questa lettura, per bloccare gli aumenti sotto una certa fascia di reddito, ma su tutto il resto ci sarà una rissa politica prolungata. Che l’accordo tampone arrivi per fine anno o a gennaio importa poco, in questa interpretazione. Il clima sarà comunque avvelenato, i repubblicani cercheranno di vendicarsi in tutti i modi e i democratici passeranno il tempo a tendere loro trappole.
Ci sarà lo scontro sul debt ceiling e si litigherà per mesi su come riabbassare le tasse salite improvvisamente il 31 dicembre. Questo clima scoraggerà gli investimenti, le assunzioni, gli acquisti di case. Ethan Harris, un economista serio e prudente, stima la crescita americana all’uno per cento nella prima metà del 2013 nello scenario più probabile, quello di una soluzione a piccoli passi del Fiscal Cliff.
Al tempo stesso, a volte nelle stesse teste, girano idee aggressivamente ottimistiche sul 2013. Chi ragiona così considera il Fiscal cliff come un incidente passeggero, una specie di tempesta tropicale che arriva e se ne va. Se ne minimizza il costo, ovvero l’aspetto restrittivo della politica fiscale.
La lettura ottimista mette insieme il permanere in tutto il mondo sviluppato di politiche monetarie espansive per il 2013, la stabilizzazione dell’Europa, la volontà di rilancio della Cina e, in America, il forte andamento dei consumi e la ripresa del mercato immobiliare e dell’edilizia. Ne ricava, come si vede dalle previsioni sul prossimo anno che le grandi case stanno pubblicando in questi giorni, un quadro ancora abbastanza favorevole per i bond e molto incoraggiante per l’azionario.
C’è del buono e dell’utile in entrambe le letture, ci pare. Il Fiscal Cliff non sarà indolore e alcuni aumenti di tasse si faranno sentire. Questi aumenti, tuttavia, non saranno alla fine così terribili come in questi giorni si paventa. A Obama non interessa molto riempire le casse pubbliche, quanto piuttosto ottenere una vittoria politica. Potendo scegliere, preferirebbe raccogliere 50 con aumenti delle aliquote marginali piuttosto che 100 attraverso la limitazione delle detrazioni per i redditi più alti. Obama vuole una vittoria che infligga il massimo dolore possibile ai suoi avversari repubblicani, dividendoli e costringendone una parte a violare l’impegno a non alzare mai le tasse. Fu proprio una violazione di questo tipo che costò la rielezione a Bush padre.
Gli aumenti, quindi, non saranno giganteschi e, in ogni caso, non verranno toccate, se non marginalmente, le detrazioni più care ai contribuenti americani, prima tra tutte quella sui mutui. Per questo sembra eccessiva la caduta dei titoli dell’edilizia, proprio in un momento in cui le società del settore segnalano una forte ripresa di attività.
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