Pubblichiamo l’analisi di Eugenio Dacrema uscita sul sito dell’Istituto per gli studi di politica internazionale.
“Il regime sta per cadere?”. Dall’inizio dell’estate, dall’esplosione che uccise il ministro della Difesa e il cugino del presidente nel cuore di Damasco, questa frase ha cominciato a essere ripetuta ad alta voce sia dai i membri dell’opposizione siriana, sia dagli osservatori internazionali.
Per tutta l’estate si è sperato che questo mantra potesse diventare una specie di profezia che si auto-avvera; ma così non è stato, ed essa ha cominciato a essere detta più raramente e con sempre meno convinzione fino alle ultime settimane. Cosa è cambiato?
Innanzitutto è cambiata l’opposizione. La riunione di Doha a metà novembre ha infatti portato alla ribalta una nuova coalizione, più unita, più inclusiva, e finalmente dotata di un leader carismatico e credibile come Moaz al-Khatib.
Essa ha ora maggiori contatti con gli uomini sul campo e maggiore credibilità all’interno del paese, anche se il peccato originale della maggior parte dei suoi membri – ovvero essere parte di quella diaspora istruita, ricca e poco connessa con la realtà quotidiana del conflitto – per molti versi ancora permane. Essa è però riuscita a ottenere l’agognato riconoscimento di “unico rappresentante legittimo del popolo siriano” sia dagli Stati Uniti sia dall’Europa, sancito definitivamente a Marrakech durante l’ennesima riunione di quella coalizione internazionale di stati più o meno volenterosi dal nome poco meditato: “Amici della Siria”.
È cambiata la situazione sul campo. Si è fortemente consolidata la presa dell’Esercito libero siriano (Els) sul nord del paese e sul suo centro più importante: Aleppo. Gran parte di quella che teoricamente costituirebbe il comando centrale delle forze armate ribelli si è trasferito all’interno del paese, per quanto una parte continui a risiedere in Turchia, al riparo dai bombardamenti dell’aviazione di Assad.
Ma soprattutto è iniziata la Battaglia per Damasco. I ribelli sono infatti riusciti a impossessarsi in modo stabile di molti quartieri periferici della capitale, e hanno ingaggiato una battaglia furiosa per il controllo della “Tariq al-Matar”, la lunga strada che dalla capitale conduce all’aeroporto più grande del paese, considerata una conquista strategicamente determinante per la presa della città.
La situazione sul campo è talmente grave per Assad che il 13 dicembre il vice-ministro degli Esteri russo avrebbe fatto un’affermazione per ora ritenuta un assoluto tabù per qualunque esponente politico russo: “i ribelli potrebbero vincere”. Smentita in seguito, questa dichiarazione ha però campeggiato nelle prime pagine di tutti i giornali internazionali come una svolta cruciale non solo nella percezione del mondo della grave situazione in cui versa il regime di Assad, ma anche nell’atteggiamento della Russia, il suo più importante alleato internazionale.
È dunque vero? Il regime sta per cadere? Per rispondere bisogna prima di tutto capire cosa si intenda con la fine del regime. Molti infatti accolgono quest’eventualità con dimostrazioni di ottimismo, associando la fine del regime di Assad alla fine dell’intero conflitto civile.
Un’analisi della situazione sul campo porta però, purtroppo, a diverse conclusioni. La fine del regime, sancita dalla perdita della capitale, difficilmente si tradurrebbe in una fine delle ostilità, ma piuttosto costituirebbe un momento di ulteriore trasformazione di questo conflitto che un anno e mezzo fa iniziò sotto forma di manifestazioni pacifiche per le riforme politiche, che dopo alcuni mesi diventarono proteste finalizzate a un cambio di regime, e che infine sono mutate progressivamente in un conflitto civile.
La mutazione in questo caso si tradurrebbe in una diversa distribuzione dei rapporti di forza. Abbiamo finora assistito infatti a un conflitto asimmetrico, caratterizzato da un governo centrale e dal suo esercito contrapposti a sempre più numerosi gruppi armati che in tutto il paese hanno impegnato le truppe di Assad con tecniche di guerriglia. Le defezioni di massa dei soldati sunniti, la progressiva ritirata da grosse parti del territorio nazionale e soprattutto la perdita della capitale trasformerebbero Assad e il suo esercito – ormai sempre più composto da solamente ben armate e addestrate unità a maggioranza alauita – dall’esercito di uno stato centrale alla più forte delle molte milizie in campo. Essa avrebbe uno spazio geografico localizzato, la regione alauita sulla costa, in cui stabilirsi, e una comunità di 2,5 milioni di persone ben consapevoli del rischio mortale che correrebbero nel caso abbandonassero le armi. Nel frattempo il grande vuoto di potere lasciato a Damasco potrebbe facilmente portare a lotte di potere intestine fra i vari capi militari che ora combattono insieme per la presa della capitale, e che hanno rapporti scarsi o inesistenti col teorico comando centrale dell’Els o con la coalizione di al-Khatib.
La fine del regime risulterebbe quindi in una diversa forma di conflitto civile, insomma, tristemente simile in molti aspetti alla Guerra civile libanese. Alla base di questo sviluppo drammatico vi sono molti fattori sia interni sia internazionali. Quelli interni sono i più lampanti: le molte e profonde divisioni della società siriana. Esse sono state abilmente sfruttate dal regime in questi due anni al fine di dividere l’opposizione e legare le minoranze strettamente al suo stesso destino, e hanno determinato la presenza di numerose milizie aventi molti capi e la propria comunità – gruppo religioso, clan o villaggio che fosse – di riferimento.
Sul versante internazionale c’è stato invece l’atteggiamento estremamente prudente dell’Occidente contrapposto a quello assai più determinato delle monarchie del Golfo. I due diversi comportamenti hanno determinato l’ascesa in importanza delle milizie fondamentaliste, alimentate fortemente dall’Arabia saudita e dal Qatar, le quali hanno visto il loro potere militare relativo aumentare sensibilmente nei confronti dei più numerosi ma scarsamente armati gruppi autoctoni e moderati. Il timore degli occidentali di armare l’opposizione per paura di supportare in questo modo i gruppi fondamentalisti è diventata la vera profezia che si auto-avvera di questa triste vicenda. Lasciando i gruppi più laici a loro stessi, mentre i fondamentalisti, spesso stranieri, venivano armati da altri attori, l’ascesa militare sul campo di questi ultimi ha reso sempre più probabile che nuovi flussi di armi provenienti dall’Occidente cadessero sotto il controllo proprio di quei gruppi fondamentalisti. È quindi uno scenario drammatico quello che si prospetta per la Siria, nonostante la fine del regime – o almeno del regime così come lo conosciamo – sembri stavolta effettivamente molto prossima.
Eugenio Dacrema è ricercatore dell’Istituto per gli studi di politica internazionale.