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La metamorfosi del Fondo di Lagarde

Pubblichiamo un articolo uscito sul sito dell’Ispi

Il caso giudiziario che sta interessando l’ex direttore generale del Fmi, Dominique Strauss Kahn, non deve gettare una cattiva luce su un’istituzione chiave della governance economica globale. Anche se l’operato del Fmi non è stato scevro da errori, l’istituzione rappresenta un presidio indispensabile per la stabilità del sistema. Nel corso della sua storia, che inizia come sappiamo a Bretton Woods nel ‘44, il Fondo ha operato adattando progressivamente obiettivi e strumenti all’evoluzione del contesto esterno. Si possono distinguere tre periodi. Il primo, ampiamente analizzato nella letteratura economica, va dall’inizio dell’operatività del Fmi alla fine del “sistema di cambi fissi”, nel 1971-1973. L’obiettivo principale era all’epoca assicurare la stabilità dei cambi, per favorire l’interscambio di merci e di capitali tra nazioni. Con i cambi fissi (ma aggiustabili) si volevano replicare le condizioni di fondo del gold standard (1870-1913), un’epoca d’oro sul piano della crescita e del commercio internazionale. Venuto meno l’obiettivo dei cambi fissi e lasciati i Paesi membri liberi di adottare il regime di cambio preferito, inizia una seconda fase di operatività,

che copre tutti gli anni ‘70 e ‘80. Il Fmi si concentra sulle politiche economiche e i requisiti
necessari a renderle mutualmente compatibili ai fini della stabilità monetaria. Il nemico numero uno
è l’inflazione, cresciuta a dismisura per una serie di ragioni: gli shock petroliferi, le rivendicazioni
sindacali, le politiche monetarie e fiscali di stampo “keynesiano”.

Il Fondo si adopera per promuovere il rigore delle politiche monetarie e fiscali e, sempre con l’obiettivo di contenere i prezzi, per l’adozione di riforme strutturali volte ad aumentare la concorrenza e l’efficienza dei mercati. Questa “ricetta” passa alla storia come “Washington Consensus” e viene spesso accusata di essere troppo “conservatrice”. Il terzo periodo, che va dagli anni ‘90 a oggi, è quello delle crisi finanziarie. La caduta del muro di Berlino e la liberalizzazione dei movimenti di capitale fanno venir meno le ultime barriere che impediscono ai mercati di essere veramente globali. La globalizzazione” comporterà un abbattimento drastico dell’inflazione, perché le economie con manodopera a basso costo possono inondare i mercati con i loro prodotti. Ma cresce a dismisura anche l’integrazione bancaria e finanziaria, senza che ciò si accompagni a una crescita dei controlli, che restano in prevalenza a carattere nazionale. Il Fondo diviene il “gestore delle crisi” ed è chiamato a intervenire in varie situazioni – Messico, Asia, Russia, Turchia, Argentina, ecc. – con liquidità di emergenza. Si crea l’impressione che l’instabilità possa derivare soprattutto dalle economie emergenti e pertanto è su quelle che si concentra l’azione di sorveglianza del Fondo. Finché non arriva la “grande crisi”, quella dei mutui subprime e del crollo del mercato immobiliare negli Stati Uniti, che porterà l’economia mondiale sull’orlo dell’abisso.

Nessuno aveva previsto una crisi di questa portata. Ma il Fmi ha le maggiori responsabilità perché è l’unica istituzione che ha le competenze e il raggio di azione per poter prevedere fenomeni di questo tipo. È il Fondo, da sempre, il guardiano della stabilità monetaria e finanziaria internazionale. Nel futuro andranno rivisti, come peraltro già si sta facendo, gli strumenti di intervento del Fmi e resa più incisiva la sua azione di sorveglianza sui sistemi bancari e finanziari alla quale non dovranno sottrarsi i Paesi avanzati, nemmeno gli Usa. Particolare attenzione meritano le istituzioni finanziarie di grandi dimensioni, dove si concentra il potenziale rischio “sistemico”: gruppi operanti su scala globale le cui dimensioni e interconnessioni sono tali da non poter essere lasciati fallire (too big to fail).

Giuseppe Schlitzer è economista e autore de “Il Fondo monetario internazionale” (Il Mulino, 2011)

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