Confiteor ergo sum. Cesare Geronzi, banchiere di lungo corso e già presidente di Capitalia, di Mediobanca e di Generali prima della clamorosa defenestrazione dell’aprile del 2011, deve aver pensato proprio questo per convincersi a chiamare un giornalista spesso poco compiacente come il vicedirettore del Corriere della Sera Massimo Mucchetti e proporgli un libro-intervista sulla sua controversa storia professionale.
Ne è nato “Confiteor”, intrigante libro-intervista appena uscito in libreria ed edito da Feltrinelli, il cui sottotitolo recita così: “ Potere, banche e affari. La storia mai raccontata”.
Settantasette anni di vita sono lunghi da raccontare, soprattutto se vissuti nel cuore del potere, ma 354 pagine, benché animate dalle domande incalzanti dell’intervistatore, sembrano un po’ troppe anche per un banchiere così importante.
Ma bastano a centrare gli obiettivi che Geronzi si era proposto? Se lo scopo era raccontare la sua verità sui fatti che lo hanno visto protagonista della finanza italiana certamente sì. Se però il fine reale era quello di rifarsi l’immagine e di presentarsi come banchiere al servizio del Paese piuttosto che di se stesso siamo lontani mille miglia dalla meta.
Geronzi spiega ma non convince, anche perché la memoria e l’intelligenza dei lettori non sono sempre labili e non basta di certo un libro a confonderle. “Sono stato raccontato – si lamenta il banchiere di Marino – come il banchiere della politica in rapporti promiscui e opachi con il mondo degli affari, il banchiere di Berlusconi che contamina la purezza milanese. L’eterno imputato. E invece la mia realtà è diversa da queste rappresentazioni”.
Il punto cruciale che rende poco credibile la concezione di banca e di sé che Geronzi propone è quella di banca e di banchiere di sistema, intesa come una banca e come banchiere che sanno guardare con lungimiranza agli interessi generali del Paese. Banca di sistema? Troppo facile per giustificare tutte le più disinvolte operazioni di banche e banchieri, anche quelle che fanno perdere un sacco di soldi agli azionisti. La banca di sistema poteva avere un senso quando la banca era un’istituzione di proprietà pubblica che rispondeva al Governo, ma dopo la privatizzazione del sistema bancario – che giustamente mandò in soffitta l’idea che la concessione dei prestiti alla clientela bancaria dovesse restare in mano alla politica – la banca è un’impresa privata che sta sul mercato e che deve rispondere ai suoi azionisti. Saper valutare il merito di credito e allocare i prestiti con intelligenza guardando al profitto della banca non solo a breve ma anche a medio-lungo termine è un’opera di saggezza ma la banca di sistema e gli interessi generali sono tutt’altro.
Non ci vengano a raccontare frottole: non c’è alcun bisogno di una banca di sistema, ma di sicuro non spetta ai banchieri privati assumere questo ruolo improprio e men che mai presentarsi come depositari di interessi generali, che tocca solo al potere politico rappresentare e per fortuna fuori dai circuiti del credito. Quando concedeva fiducia immeritata a Tanzi e a Cragnotti, forse Geronzi lo faceva in nome di interessi generali? Suvvia, non scherziamo.
Anche la disinvoltura ha i suoi limiti e mai come in questo caso la rivendicazione del ruolo di banchiere di sistema lascia il sospetto che in realtà si voglia solo nobilitare il banchiere che ha per reale obiettivo il proprio potere personale. Non stupisce che questa distorta concezione della banca di sistema, che c’è anche in Giovanni Bazoli ma con origini diverse anche se egualmente discutibili, abbia portato Geronzi a solidarizzare e a rappresentare a lungo il punto di riferimento della visione feudale e dirigistica del peggior governatore della Banca d’Italia del dopoguerra e cioè di Antonio Fazio.
Il veto, ammantato da vizi formalistici, di Fazio all’Opa del Sanpaolo sulla Banca di Roma del ’99, è paradigmatico. Geronzi, che guidava la banca capitolina, non voleva essere scalato dalla banca torinese e Fazio, anziché essere arbitro imparziale, non perse l’occasione per espropriare il mercato delle sue libere scelte e per fare e disfare il sistema bancario a suo piacimento.
Anche in Via Nazionale c’erano figli e figliastri. Quindi: niente Opa del Sanpaolo sulla Banca di Roma e niente Opa di Unicredit sulla Comit. Con buona pace del mercato e della modernizzazione del sistema. Chissà come sarebbe stata la storia delle banche e della finanza italiana se le cose fossero andate diversamente e se quelle due Opa fossero andate in porto, come avrebbe gradito l’allora ministro del Tesoro, Carlo Azeglio Ciampi.
Ma non fu così e non furono certamente gli interessi generali a orientare le scelte difensive di Fazio e di Geronzi. Un’ultima notazione merita la breve e disastrosa avventura di Geronzi alle Generali. Saggiamente Mucchetti domanda se non fu il desiderio di sottrarsi ai rigori della disciplina bancaria in caso di nuovi guai giudiziari a indurre Geronzi a lasciare la presidenza di Mediobanca per quella delle Generali. Ovviamente Geronzi nega ma è interessante notare che nelle sue confessioni l’attenzione ai 400 miliardi di euro di riserve del Leone di Trieste è sempre in cima ai suoi pensieri. Per una discutibile concezione della banca di sistema era evidente che il tesoro delle Generali esercitasse una forte seduzione e potesse diventare una formidabile fonte di potere. Al punto da indurre il pur navigato Geronzi a entrare a gamba tesa – con una improvvida intervista al Financial Times – sui poteri dell’orgoglioso management triestino e del suo ceo Giovanni Perissinotto fino ad arrivare allo scontro finale. Lo stile di una persona si misura anche nel suo congedo. Dopo soli 11 mesi di presidenza, Geronzi – con il sostegno attivo di Francesco Gaetano Caltagirone – ottenne dalle Generali una buonuscita di 16,6 milioni di euro. “Tutto legale” si difende Geronzi: fu solo la conseguenza di un contratto. Ma l’etica negli affari non dovrebbe valere anche per i “banchieri di sistema”? Forse Geronzi ce lo dirà in un prossimo libro.