“Rendi a cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio”. Con questo noto comando evangelico, la risposta con la quale Gesù si sottrasse alla trappola tesagli da chi sperava di fargli di dire qualcosa di sconveniente per il popolo di Israele o per le autorità politiche dell’Impero romano (o magari per entrambi), Papa Ratzinger inizia il suo articolo pubblicato lo scorso 19 dicembre dal “Financial Times”.
A mo’ d’introduzione, andrebbe precisato che l’intervento del Pontefice ha un carattere teologico-pastorale e, proprio in forza di tale cifra, si propone di esprimere la rilevanza civile – politica, economica e culturale – della prospettiva antropologica espressa dal mistero dell’Incarnazione. In questa sede non ci soffermeremo sugli aspetti più spiccatamente teologici, non fosse altro perché chi scrive non è un teologo, quanto sulla considerazione dell’importanza che ha avuto una simile prospettiva antropologica nella genesi e nello sviluppo di istituzioni che oggi riteniamo indispensabili al vivere insieme, in quella particolare e storicamente determinata dimensione politica che Benedetto XVI ebbe a definire “Stato liberale e di diritto”, in occasione del suo discorso al Bundestag di Berlino il 22 settembre del 2011.
In tal senso ci soffermeremo brevemente e, per forza di cose, superficialmente su un aspetto decisamente politico del vivere dei e da cristiani nella “pubblica piazza” ed uno di carattere squisitamente economico, nella consapevolezza del tempo che stiamo vivendo, un tempo di riflessione sull’avvenimento centrale della nostra fede e di attesa rispetto alla venuta del Salvatore. Un’attesa che per il cristiano non può che essere quotidiana, del tutto indifferente alle luminarie e decisamente avversa a chi pretende di convincerci che il motore dell’economia di mercato sial il consumo per il consumo. A tal proposito, non possiamo non considerare quanto segue un indispensabile chiarimento sulla prospettiva antropologica introdotta dal cristianesimo e linfa vitale per la nascita di istituzioni civili conformi ad essa. Scrive Benedetto XVI: “Alla fine di un anno che ha significato privazioni economiche per molti, che cosa possiamo apprendere dall’umiltà, dalla povertà, dalla semplicità della scena del presepe? Il Natale può essere il tempo nel quale impariamo a leggere il Vangelo, a conoscere Gesù non soltanto come il Bimbo della mangiatoia, ma come colui nel quale riconosciamo il Dio fatto Uomo”.
Con riferimento alla dimensione più spiccatamente economica, Benedetto XVI ci ricorda che “I cristiani si oppongono all’avidità e allo sfruttamento nel convincimento che la generosità e un amore dimentico di sé, insegnati e vissuti da Gesù di Nazareth, sono la via che conduce alla pienezza della vita” È questo il tema trattato da Benedetto XVI nel terzo capitolo dell’enciclica Caritas in veritate (2009) in merito alla complementarietà del mercato rispetto ad altre dimensioni della alla vita sociale.
Il mercato ci viene presentato come la più alta forma di collaborazione tra persone che non condividono necessariamente gli stessi fini. Il mercato si fonda sul principio contrattualistico della “reciprocità”, il che significa che il presupposto del mercato, ovvero l’elemento che lo pone in essere, è lo scambio volontario. Due persone s’incontrano e, scambiandosi informazioni sulle aspettative reciproche, si accorgono di poter essere l’uno d’aiuto all’altro.
In tal senso, come ci ha insegnato l’economista tedesco Wilhelm Röpke, i processi di mercato, per quanto virtuosi, non andrebbero mai confusi con il dono ed evidentemente, per quanto viziosi, neppure con la rapina. Ecco il motivo per cui la categoria del dono appare come quella indispensabile dimensione del vivere che rende autenticamente umani i rapporti e, di conseguenze, autenticamente umana l’esistenza. Sappiamo bene che la vita degli uomini non si risolve nel mercato e l’esperienza del dono ci consente di constatare direttamente la parzialità della logica del mercato, ma relegare il mercato tra le relazioni utilitaristiche, oltre ad essere un errore logico, appare sempre più un errore pratico e, alla lunga, potrebbe risolversi in un errore politico. La catallassi, il mercato, è la tipologia sociale propria degli uomini liberi che consapevolmente cum-petono per ottenere il miglior risultato possibile, in ordine all’allocazione di beni scarsi e disponibili; ciò che non è scarso e non è disponibile – in breve, ciò che non è economico – evidentemente non entra e non deve entrare nella logica di mercato.
Riteniamo che vada letta in questo contesto teorico l’enfasi posta da Benedetto XVI sull’importanza della giustizia distributiva per l’esistenza della stessa economia di mercato. In forza del suo esercizio, gli uomini possono disporre di fattori extracontrattuali necessari affinché un contratto possa essere stipulato e che ciò avvenga al minor costo e nel modo più sicuro possibile.
In questa prospettiva, la cifra autenticamente umana dello sviluppo è in stretta relazione con la dimensione antropologica dell’uomo, del suo essere creato ad immagine e somiglianza di Dio e di partecipare con il Creatore dell’Amore del Padre, un amore che, rendendoci figli, ci rivela la fratellanza con tutti gli uomini della terra e la vocazione ad amare il prossimo come Dio ci ama. La cifra è evidentemente rintracciabile nel mistero-scandalo della Croce, è quella la misura con la quale Dio ci ha amati e ci ama.
Per questa ragione, il tema economico è espresso da Benedetto XVI nella teorizzazione dell’impossibilità del mercato di auto fondarsi. Il mercato per Benedetto XVI vive e prospera in forza delle virtù come l’onestà, la fiducia, la “sympathy”, ma non è in grado di crearle da solo; e, qualora dovesse promuoverle, lo farebbe solo nella misura in cui i soggetti che vi operano scelgono di vivere secondo virtù e, così facendo, per usare un argomento tipicamente smithiano, anche inintenzionalmente, finiscono per lubrificare i meccanismi del corpo sociale. Il mercato nudo e crudo semplicemente non esiste, il mercato è le sue istituzioni, le quali si nutrono della cultura di coloro che le fondano e le popolano: le istituzioni, ci ricorda Popper, sono come le fortezze, resistono se sono forti le guarnigioni.
Con riferimento alla questione politica, nel senso più stringente e apparentemente freddo del termine, ossia la questione relativa al potere, alla sua conquista, al suo mantenimento, fino al suo trasferimento, riprendiamo il discorso esattamente da dove Benedetto XVI ci invita ad iniziare la riflessione: “Rendi a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che di Dio”. Scrive il Pontefice: “Quando i cristiani rifiutano di inchinarsi davanti ai falsi dei proposti nei nostri tempi non è perché hanno una visione antiquata del mondo. Al contrario, ciò avviene perché sono liberi dai legami dell’ideologia e animati da una visione così nobile del destino umano, che non possono accettare compromessi con nulla che lo possa insidiare”.
Come ci ricorda Dario Antiseri nel volume Laicità. Le sue radici le sue ragioni (Rubbettino, ???), per editto religioso entrava nella storia il principio politico che “Káisar” non è “Kyrios”. In pratica, il principio in base al quale il potere politico veniva definitivamente desacralizzato, l’ordine mondano relativizzato e le richieste del “Cesare” di turno sottoposte ad un giudizio di legittimità da parte di una inviolabile coscienza.
L’unica carta dei valori che i cristiani dovrebbero firmare non è tanto quella che questo o quel partito ininterrottamente ripropone, aggiornata rispetto all’opportunismo e sempre più conforme alla leggi della contingenza, quanto piuttosto quella risalente alla seconda metà del II secolo d.C., nota come Lettera a Diogneto “I cristiani né per regione, né per voce, né per costumi sono da distinguere dagli altri uomini. Infatti, non abitano città proprie, né usano un gergo che si differenzia, né conducono un genere di vita speciale. […] Vivendo in città greche e barbare, come a ciascuno è capitato, e adeguandosi ai costumi del luogo nel vestito, nel cibo e nel resto, testimoniano un metodo di vita sociale mirabile e indubbiamente paradossale. Vivono nella loro patria, ma come forestieri; partecipano a tutto come cittadini e da tutto sono distaccati come stranieri. Ogni patria straniera è patria loro, e ogni patria è straniera. Si sposano come tutti e generano figli, ma non gettano i neonati. Mettono in comune la mensa, ma non il letto. Sono nella carne, ma non vivono secondo la carne. Dimorano nella terra, ma hanno la loro cittadinanza nel cielo. Obbediscono alle leggi stabilite, e con la loro vita superano le leggi”. Il che significa con la loro vita sono anche pronti a ribellarsi alla legge, perché per il cristiano solo Dio è il Signore, l’Assoluto. Lo stato, i partiti, il potere agli occhi del cristiano non sono nulla di assoluto.
Ne consegue che affamare e testimoniare con la vita e fino al sacrificio estremo della vita che “Káisar” non è “Kyrios” significa piantare una spina nel fianco nelle pretese onnivore del potere politico. Si tratta indubbiamente di un principio religioso ed insieme etico, ma che ha conformato un archetipo antropologico fino a quel momento ancora inedito nella storia dell’umanità: la persona, unica, libera e responsabile, e con essa ha alimentato una sorgente inesauribile di istituzioni in assenza delle quali sarebbe inspiegabile l’esperimento politico liberale; uno per tutti: l’obiezione di coscienza. Per non parlare della miriade di corpi intermedi, autentici presidi di liberà e di responsabilità e di cultura civica, come le università, gli ospedali, gli orfanotrofi, le associazioni di carità, gli ordini religiosi, le confraternite, i monti frumentari, le scuole, le cattedrali, le cooperative, i movimenti politici, le casse di risparmio, i giornali diocesani, le organizzazioni giovanili e l’elenco potrebbe non terminare mai.
Ebbene, se assumiamo una tale prospettiva, che Benedetto XVI sintetizza affermando che coloro che ascoltavano Gesù avrebbero dovuto capire che “il Messia non era Cesare, e che Cesare non era Dio”, appare evidente che il Cristianesimo, con le sue chiese e i suoi martiri, è stato l’evento politico più importante dell’Occidente: per decreto religioso lo Stato non può essere tutto.
Possiamo concludere sottolineando come Benedetto XVI ci inviti a riflettere sul fatto che le attività economiche e politiche non si realizzano mai in uno vuoto morale o in un mondo virtuale, ma all’interno di un determinato contesto culturale, le cui matrici possono essere riconosciute e apprezzate ovvero trascurate e disprezzate.
Quando un sistema sociale nega il valore della persona umana, a partire dal diritto a nascere e a vivere partecipando alla dimensione economica, oltre che politica e culturale, si rivela da se stesso come disumano, e merita di essere criticato e combattuto fino all’estremo sacrificio. In questa prospettiva, tanto una sana economia di mercato quanto una sana democrazia sono sempre limitate da un ordine giuridico che le regola e da istituzioni morali, come ad esempio la famiglia e la pluralità dei corpi intermedi, che interagiscono con esse e le influenzano, essendone esse stesse influenzate.