Skip to main content

Verso un doppio ingorgo istituzionale?

La parola ingorgo non è presente in alcuno dei 139 articoli e delle 18 disposizioni finali e transitorie della nostra carta costituzionale. Eppure essa fu presente alla considerazione dei padri costituenti: o almeno di  quelli che avevano maggiore consa­pevolezza giuridica e, soprattutto, più sopraffino senso dello Stato. Quei fondatori erano convinti che, non all’improvviso, bensì in speciali occasioni temporali,  le istituzioni si sarebbero trovate dinanzi ad un inevitabile ingorgo, cioè alla contemporanea sovrapposizione fra scadenza di un settennato presidenziale, elezioni di una ovvero di entrambe le camere (inizialmente previste in sei anni per il senato, in cinque per quella dei deputati) e necessità di nominare un presidente del consiglio nel presupposto (tacito quanto alla teoria, conte­sta­tissimo quanto alla pratica politica)  di doverne effettuare la scelta anche in base al principio della alternanza democratica. L’ingorgo era, al contempo, tecnico e politico.

Poiché ormai la costituzione la si recita, fra il faceto e il serioso, in televisione come fosse un talk show o, come si usa dire, a ruota libera, da parte di comici assurti  a docenti di costituzionalismo, sarà opportuno rammentare che, all’epoca della costituente e della elezione del primo parlamento repubblicano, era pacifico che le assemblee legislative si eleggessero esclusivamente su base proporzionale. Un sistema che, pur rispettoso della reale volontà popolare, premiava i partiti più forti e penalizzava i più piccoli.

Contrariamente a quanto sostengono i custodi dell’integrità costituzionale, la costituzione è stata violata (e, dunque, modificata) sin dalla conclusione della prima legislatura. Quando alcuni partiti minori, ritenendo troppo ingombrante  la rappresentanza parlamentare della Democrazia cristiana (il partito maggiore), pretesero e ottennero (con richieste che, oggi, appaiono eccessivamente assurde anche ai puristi dei sistemi elettorali) che si introducesse un premio parlamentare di maggioranza al partito o alla coalizione che avesse  superato il 50 per cento più 1 dei voti validi. La legge, definita  “truffa” da Nenni e da Pajetta, non passò. La propaganda e la pulsione democraticiste riuscirono a convincere alcuni parlamentari centristi (tendenti sia verso destra che verso sinistra) a presentare liste che, pur non raccogliendo vasti consensi, impedirono alla legge maggioritaria di essere approvata, essendole venute a mancare  appena 59 mila voti. C’è, inoltre, da dire che, oltre ai voti andati a Corbino da un lato, e a Parri dall’altro, nonché a quella presentata da Cucchi e Magnani, espulsi dal Pci perché contrari all’espansionismo sovietico, erano stati annullati  coi pretesti più inverosimili, da parte delle sinistre e delle destre in ciò coalizzate, oltre un milione di voti, in realtà dati regolarmente alla coalizione centrista.

Oggi, invece, si va al voto, come accadde dal 1994, con ben altra legge elettorale. Negli ultimi sei mesi si è molto discusso, in parlamento e sui media, di eliminare l’impresentabile porcellum. Ma non si è pervenuti ad alcun costrutto, avendo, soprattutto il Pd, puntato su un premio di maggioranza molto elevato (considerato indispensabile  per una stabilità parlamentare) ed una soglia molto bassa: il 25 per cento rispetto al 50,01 della presunta “legge truffa” del 1953.

Cambiata più volte in oltre sessantacinque anni di repubblica la legge elettorale e modificato, senza maggioranza costituzionale, l’intero Titolo V della carta (quello ordinamentale, cioè l’architettura della costruzione costituzionale), l’ingorgo costituzionale non si è dissolto. Il più recente precedente – quello di Francesco Cossiga – evidenzia che il capo dello Stato uscente, incontrate fra le due maggiori forze politiche, di governo e di opposizione, una fortissima resistenza verso le sue  sollecitazioni ad attuare serie riforme, anche  costituzionali, preferì risolvere da solo l’ingorgo istituzionale: dimettendosi in leggero anticipo rispetto alla data di scadenza del suo settennato. In tal modo consentì l’elezione di un nuovo capo dello Stato avente il compito, fra l’altro, di nominare un nuovo presidente del consiglio in base alle nuove indicazioni popolari, che nel 1994 sconvolsero l’intera geografia politica e parlamentare nazionale.

Il presidente Napolitano, sensibile alla esistenza dell’ingorgo istituzionale derivante soprattutto dalla sua fine mandato all’inizio della  primavera 2013, ha più volte precisato che, per l’età e per il rispetto dovuto alla più alta carica dello Stato (che non può sciogliere le camere nel semestre bianco), non si sarebbe nel modo più assoluto ricandidato: a differenza, cioè, di quanto richiesto (ma non ottenuto) da alcuni suoi predecessori come De Nicola, Einaudi, Gronchi, Saragat e Pertini. Però, parlando ad un uditorio ristretto delle massime autorità pubbliche (ma perché i partiti intendessero), Napolitano ha detto con estrema chiarezza che, a designare il futuro presidente del consiglio, sarà ancora lui. Sicché sortiranno ulteriori dubbi sul cul de sac in cui si è andata ad infilare una classe politica, superba nelle ambizioni, imprevidente nella prassi.

All’ingorgo istituzionale classico si è venuta ad aggiungere una candidatura, ritenuta salvifica soprattutto da alcuni gruppi editoriali, la quale dovrà comunque fare i conti coi voti reali espressi dagli elettori, cui spetta l’esercizio della sovranità nazionale. E qui rischiamo davvero di ritrovarci tutti di fronte ad un doppio ingorgo, che non è giusto ricada sulla responsabilità tecnica e politica di una sola persona, per quanto nobile e austera.

 


×

Iscriviti alla newsletter