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Signori, non scherziamo:
Monti non è De Gasperi

Monti come De Gasperi? Soltanto una generosa iperbole giornalistica può addurre una simile improponibile analogia. L’unico punto in comune fra due personalità tanto diverse – per formazione culturale, capacità aggregativa, statura internazionale – è la medesima origine settentrionale. L’essere un cattolico praticante, ad esempio, non autorizza a presentare Monti come l’incarnazione di una nuova esperienza di cattolicesimo politico, italiano od europeo. Né la capacità di Monti di parlare tedesco nei consessi bruxellesi può rendere equivalenti la rappresentanza degli interessi bancari e dei mercati finanziari a spese della grande maggioranza  dei cittadini dei 26 Stati aderenti alla comunità con l’europeismo di un De Gasperi che, assieme ad Adenauer e a Schuman, propugnava un’Europa politica, finalmente pacificata dopo due terrificanti conflitti mondiali, sempre e non solo a tratti democratica, sottratta alle consorterie corporative, fedele alle bi­millenarie radici culturali cristiano-giudaiche, partner paritaria con le democrazie angloamericane.

Monti è, dichiaratamente, un tecnico prestato alla politica per sopperire ai guasti di un lungo intervallo di deficienza politica e di spesa mal controllata; e che, cessata una funzione che oggettivamente non presenta un bilancio brillante né apprezzato dalla maggioranza degli italiani, d’improvviso evoca una sua possibile “salita in politica”. “Alta” com’egli precisa, presumendo che un memorandum di prosecuzione-lavori di promesse annunciate, presentate come salvifiche anche se impopolari e non portate a termine costituisca, di per sé, una piattaforma politica di elevata fattura e di qualificante continuità coi suoi controversi tredici mesi di governo trascorso grazie ad una “maggioranza strana” fra gruppi molto disomogenei e non amalgamabili.

Il professor Monti potrebbe vantare illustri ascendenze come tecnico. Con Luigi Einaudi, ad esempio, che lo anticipò scrivendo editoriali per il Corriere della Sera e, nel maggio 1947, accettò di fare il ministro del IV governo De Gasperi in una fase in cui il metodo del “doppio binario»”(collaborativi nel governo e oppositori nelle piazze) dei partiti di sinistra aveva profondamente logorato il Paese, letteralmente alla fame, mentre il quotidiano milanese discettava di un “quarto partito” laico, rappresentativo della borghesia del triangolo industriale Milano-Torino-Genova che sostituisse De Gasperi e la sua Dc, risultata primo partito d’Italia il 2 giugno 1946.

Monti ha ricevuto nel novembre 2011, su un piatto d’argento, in regalo e senza alcuna investitura popolare, il mandato fiduciario di amministrare l’economia nazionale coinvolta in un disastro dalle manovre finanziarie mondiali: per risanarla, non per prendere tempo e non fermare la recessione economica da quella prevalentemente prodotta. Malgrado i cinquanta voti di fiducia ottenuti con una progressiva diminuzione dei voti favorevoli di parlamentari sino a quel momento schierati su sterili fortilizi contrapposti, il suo governo, avente interlocutori nei grandi centri della finanza mondiale (il gruppo Bilderberg al professor Monti dovrebbe dire più di qualcosa), non s’è rivelato all’altezza delle speranze sollevate nella fase iniziale; ha tenuto marginalizzata e opaca la sovranità popolare; ha disfatto equilibri dialettici ma di senso democratico; e ha spostato vecchie e nuove rovine con un bilancino ragionieristico, neppure molto professionale.

Esiste un centro fluido, più parlamentare che politico, in continua agonia per mal sottile, che ha cercato di risalire la china declinante di una debole rappresentanza di interessi presentando Monti come salvatore della patria e proprio esponente maximo. E il professore ha ceduto all’emozione di poter raccogliere consensi vasti sulla sua persona, essendo i promotori della sua candidatura a prossimo premier ridotti maluccio, incapaci di esprimere proposte di politica di qualità, imbolsiti da incarichi parlamentari che il professore tecnico non potrà loro continuare ad assicurare.

Un tale centro, sempre meno credibile agli occhi dei postdemocristiani e degli stessi moderati che si sono ultimamente affiancati ai partitini residui, è palesemente più un fatto mediatico che un soggetto politico reale. Se Monti si sentirà pago delle sollecitazioni di tale piccola terza forza, invero molto orgogliosa ma incapace di raccogliere qualificanti consensi spostandoli dall’altissimo astensionismo, non deve chiedere il permesso a nessuno. Ma nessuno pretenda di presentare l’ex rettore della Bocconi come un novello De Gasperi.

Tanto per ricordare, De Gasperi cominciò a fare politica che aveva i pantaloni corti, e possedendo il coraggio di osservare un apprendistato severo e lunghe opposizioni per trasformare le sue intuizioni e proposte, da minoritarie, a maggioritarie. Pochi italiani del Novecento possono vantarsi d’essere stati irredentisti o ricostruttori morali e materiali, come lo fu De Gasperi, tirando fuori il Paese dalle tragiche condizioni cui l’avevano ridotta la guerra fascista e la guerra civile, sino a collocarsi fra i Grandi della terra. E pochissimi politici di estrazione cattolica ebbero come lui, la forza di fare la fame per difendere la propria coerenza e, da statista autentico, non piegarsi alla volontà di un Pontefice il quale pretendeva da lui scelte d’obbedienza e responsabilmente non autonome.

Non si dimentichi inoltre che, presentando la Dc come “partito di centro che guarda verso sinistra”, De Gasperi (e non altri democristiani che lo combatterono per il suo senso dello Stato), non intendeva proporre un’alleanza di governo con le sinistre; ma semplicemente teneva a negare che lo Scudocrociato fosse un partito conservatore o moderato, avendolo modellato come un partito di popolo, con un programma popolare e posto al servizio del popolo. Cioè respingeva la pretesa delle sinistre di essere espressive e rappresentative esclusive di un popolo che non era e non si sentiva soltanto operaista e centralista.

Oltre tutto, De Gasperi non ebbe eredi neppure nella Dc, che le sopravvisse (anzi, un piccolo seme gli sopravvive ancora, malgrado il silenzio dei media) non raramente ignorandone gli insegnamenti ideali, metodologici, personali e di rispetto e tolleranza civili.

E’ perciò non difficile, bensì impossibile, paragonare a De Gasperi a qualunque altra personalità degna di rispetto, ma non per questo in qualche modo assimilabile allo statista trentino, che, con la sua politica di alleanze propositive e di spesa rigorosa, determinò le condizioni strutturali che avrebbero consentito il “miracolo economico”.



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