Dopo le amare esperienze degli ultimi anni, credo che nessuno sia disposto a cedere a nuove illusioni politiche. La novità rappresentata dalla “salita in campo” del professor Monti risiede anche nel metodo calmo, sobrio e per nulla trionfalistico con il quale ha comunicato la sua decisione. Qualcuno ha ironizzato anche sulla sobrietà di Monti e ha sottolineato che con la sobrietà non si cresce, parafrasando l’allora Ministro Tremonti, quando ebbe a dire che “la cultura non dà da mangiare”.
Ebbene, le questioni di metodo e di stile non riguardano solo aspetti formali. Mai come in politica la forma è sostanza. Ecco, dunque, alcune sottolineature di merito, che ci auguriamo possano entrare a pieno titolo nel programma elettorale che di qui a poco contiamo di leggere e di giudicare. Nel paragrafo dell’“Agenda Monti” dedicato al federalismo e alle autonomie responsabili, ci si appella al principio di sussidiarietà. Si tratta di un principio del quale negli ultimi vent’anni in molti si sono riempiti la bocca. Basti pensare che le ultime due Legislature hanno visto persino la nascita di un intergruppo parlamentare dedicato alla sussidiarietà.
Poi abbiamo assistito alla deriva della cosiddetta “seconda repubblica” (ma che non si sia trattato di una lunga appendice della prima?), fatta di scandali partitocratici e di comportamenti oltre ogni decoro istituzionale, tracimanti la pur minima decenza. Ci siamo accorti che buona parte dei difensori della sussidiarietà alla amatriciana o all’ambrosiana altro non erano che i soliti approfittatori, intossicati di statalismo e che della libera iniziativa non avevano che un’idea caricaturale e grottesca.
Di sussidiarietà ci piacerebbe che si parlasse come di quel principio che rende effettiva la giustizia sociale, ancorando la libertà alla responsabilità. Di un principio che assume la libertà come l’habitat naturale nel quale la persona è chiamata a vivere. Una libertà che si implementa mediante l’azione congiunta di una vivace società civile e di una governance politica che tenda a rimuovere gli ostacoli, rendendo in tal modo sempre più effettiva l’uguaglianza dei punti di partenza.
Il principio di sussidiarietà disegna la giusta articolazione tra i soggetti che compongono il variegato e poliarchico corpo sociale. Se, ad esempio, la persona, la famiglia e la società hanno una fondazione ed una legittimazione autonoma dallo stato e che, in un certo senso, lo pongono in essere, ne consegue che questo deve in primo luogo rispettare e promuovere le suddette tre dimensione, senza alcuna pretesa egemonica. Ciò significa che lo stato dovrà astenersi dal promuovere azioni che siano di competenza delle comunità che lo precedono. Se in termini negativi è opportuno che una comunità di ordine superiore si astenga dall’intervento, nel rispetto delle comunità di ordine inferiore e più prossime alla conoscenza del problema che attende di essere risolto, in termini positivi, significa che una comunità di ordine superiore dovrà invece intervenire in modo suppletivo e temporaneo con strumenti adeguati per aiutare le comunità ad esplicare le loro funzioni e a svolgere quei compiti che appartengono a loro in modo primario.
Sotto il profilo storico, il principio di sussidiarietà rappresenta un cardine empirico della moderna dottrina sociale della Chiesa e contrasta con il centralismo tipico dei sistemi che prediligono soluzioni stataliste-monopolistiche nei campi della scuola, dell’impresa e della previdenza sociale. Non dimentichiamo che tale formulazione coincide con l’ascesa dei totalitarismi in tutta Europa: il comunismo sovietico, il fascismo italiano e di lì a poco sarebbe esploso il nazismo in Germania. Al di là delle differenza, il totalitarismo presenta una comune cifra, quella di assorbire le energie spontanee che emergono dall’autonoma azione dei corpi intermedi della società civile e di convogliarle e ridurle sotto il cappello dell’autorità centrale. A tal proposito, valga il motto con il quale Mussolini riassumeva il significato più intimo dell’ideologia fascista: “Tutto nello Stato, dello Stato e per lo Stato, nulla al di fuori dello Stato”.
Possiamo riassumere il carattere economico e politico di una società ordinata secondo il paradigma personalista della sussidiarietà nell’affermazione che lo stato non deve avocare a sé le competenze di ambiti che, invece, appartengono ad istituzioni di ordine inferiore, ma, semmai, deve sorvegliare che questi livelli adempiano adeguatamente ai loro compiti, e deve intervenire solo nel caso in cui essi non ce la facessero, prima per sostenerli, e solo dopo, qualora non riuscissero a rispondere ai bisogni, per sostituirli. In breve, vale l’aforisma formulato da Pio XII: civitas propter cives, non cives propter civitatem.
Il paradigma della sussidiarietà consiste nel ritenere che lo stato dovrebbe incoraggiare l’azione dei corpi intermedi che alimentano e vivificano la società civile, quanto meno per tentare di porre un qualche rimedio all’opprimente burocratizzazione e alla proliferazione di norme che attualmente fanno felici soltanto avvocati e commercialisti, oltre a deprimere lo spirito d’iniziativa individuale e a generare un sentimento di cinico disprezzo nei confronti della nozione di solidarietà sociale. In definitiva, i corpi intermedi dovrebbero diventare gli autentici agenti del pluralismo, della democrazia e della solidarietà, per riformare il nostro Paese e per rendere le sue istituzioni più salde.