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Viaggio tra i think tank russi (in disarmo?)

I rapporti tra Anders Åslund e la Russia, lunghi e controversi, sono stati sempre caratterizzati dalla competenza dell’economista. Sin dai primi passi della presidenza El’tsin, lo specialista svedese di transizioni delle economie postcomuniste ha seguito i tormentati tentativi di Mosca nel volere il passaggio da forme centralizzate di governo dell’economia, a modelli più vicini alla libertà di scelta tipica del mercato. Le sue pubblicazioni hanno trattato con competenza i cambiamenti in corso nell’ex Urss. Interventi e pensieri sempre conditi del sale della polemica senza il quale la discussione tra esperti sarebbe una vuota coazione a ripetere argomenti scontati.

Ora lo studioso si è cimentato con un altro soggetto. Un suo articolo sul Moscow Times prende di petto i centri di ricerca politici di Mosca. Partendo dal presupposto cekoviano secondo cui il meglio sta sempre nelle cose passate, lo studioso si concentra in un breve excursus dei think tank del Paese nato dalle ceneri sovietiche.

Nascita, crescita e morte del think tank slavo e ortodosso. Cosi, approssimando, si può definire il contributo di Åslund al Moscow Times, giornale in lingua inglese della capitale russa. Nati nel 1990, i think tank indipendenti in salsa cirillica raggiungono un picco nei primi anni 2000. Con l’età dell’oro fissata nel 2003 quando, secondo l’analista svedese, Mosca aveva i migliori centri di ricerca politici del mondo esclusi gli Usa.

Da allora il declino, fissato simbolicamente dall’economista nel 25 ottobre 2005 giorno dell’arresto di Mikhail Kodorskovskij. Il capitalista più di successo del Paese. L’uomo che più di altri aveva capito l’importanza di una “rivoluzione culturale” per la Russia e vedeva in think tank e università i luoghi da dove introdurre elementi di liberalismo nel paese. E Dio sa quanto la Russia ne abbia bisogno. Åslund non lo dice ma il 2003 è anche l’anno in cui la rivoluzione arancione ucraina muove i primi passi.

Dando il via in Russia a una paranoia semi di massa sui presunti interventi di potenze straniere che vogliono far seguire alla Federazione lo stesso destino dell’Urss. Fino alla legge sulle Ong agenti di potenze straniere approvata dalla Duma il mese scorso. Chiunque frequenti la Federazione sa come questa atmosfera influisca non sono solo sui centri di ricerca ma persino nel pensiero del singolo cittadino russo.

Poco da salvare allora in quella che l’economista svedese descrive come una abdicazione generale del pensiero nazionale? Qualcosa invece si agita sotto la corteccia del gelo putiniano. Per esempio il centro Carnegie di Mosca. Che non è un luogo in disarmo come ritiene l’economista svedese. Chi lo ha frequentato personalmente sa per esempio che il programma di politica interna, al contrario di quanto scrive Åslund, non è in coma.

Si tratta invece di un dipartimento vivace e vigile come afferma il direttore del centro. Del resto è lo stesso Dimitry Trenin a rivendicare con orgoglio la nomina della struttura russa a  miglior think tank di Europa centrale, orientale e Paesi dell’ex Urss, per quattro anni di fila a partire dal 2009. L’economista svedese non ritiene importante i tentativi fatti in Germania per creare centri di ricerca russo-tedeschi allo scopo di superare i pregiudizi russo-europei. Nemmeno il caso del centro russo per le Analisi di strategie e tecnologie, struttura legata ai ministeri della difesa del Paese, è preso in considerazione da Åslund. Il centro è stato uno dei primi think tank a mettere sotto accusa la politica del Cremlino di sostegno cieco alla Siria. Forse l’analista si abbandona troppo al pessimismo. Dimenticando che l’immobilità eterna appartiene al regno delle saghe, non a quello della natura umana che vuole andare sempre avanti. Anche in Russia.

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