Chi non avesse ancora letto il magnifico libro di Curzio Malaparte, “Tecnica del colpo di Stato”, lo faccia durante queste festività. È un’opera impeccabile, perfetta, caustica.
Nelle sue elucubrazioni sulle varie tecniche sovversive ed eversive possibili, sulle loro forze e debolezze, attraversando i casi più celebri della storia pregressa e affrontando di petto (e di mente) alcune esperienze a lui coeve di colpo di stato, Malaparte riscontra alcune costanti: primo, i colpi di stato più efficaci, e quindi più pericolosi, sono quelli che si verificano nell’ordine più che nel disordine, quelli “fatti dai cardinali e non dalla povera gente” (c’è, in effetti, una differenza sostanziale tra la rivoluzione e il colpo di stato); secondo, un colpo di Stato, per funzionare, deve aggredire i punti nevralgici nella vita di una nazione: non basta, cioè, occupare i ministeri, per Malaparte, ma è indispensabile anche impadronirsi di tutti gli snodi che si rivelano vitali per la quotidianità di un Paese (reti, centri di smistamento, centri di informazione, poli produttivi, luoghi della socialità).
Queste riflessioni, che sono collegate al mio post di qualche settimana fa sull’Internet delle cose e sulla cybersecurity pubblico-privata (per cui ha senso porsi il problema di come difendersi da attacchi che potrebbero mettere in ginocchio via web i nostri servizi essenziali pubblici ma anche domestici), possono essere riferite anche allo “stato digitale”. Non è nel disordine delle genti e delle opinioni che vige il vero pericolo per le libertà, bensì nell’ordine estremo. A questo proposito, per fortuna, il recente summit internazionale organizzato a Dubai dall’ITU (Agenzia delle Nazioni Unite per le telecomunicazioni), che voleva “mettere ordine e sicurezza” nella rete, è fallito. Il fallimento del tentativo di irreggimentare Internet è stato possibile anche grazie alla sensibilità dei governi europei, che hanno rifiutato di firmare le modifiche ai trattati internazionali sulle telecomunicazioni (ITRs) impedendo così che il web finisse sotto lo stretto controllo dell’agenzia Onu o, peggio, di alcuni Paesi non propriamente democratici.
A dire il vero, come notava anche Malaparte nel 1931, in alcuni casi il disordine può rivelarsi utile per il ribaltamento degli equilibri istituzionali, ma soprattutto in situazioni nelle quali viga un ordine assoluto, dittatoriale e militarizzato. Allora sì, il caos può destabilizzare e rovesciare i regimi senza libertà, ma portandola e non togliendola. In parte, segnali di questo genere li abbiamo notati nella “Primavera araba”, quando i rivoluzionari hanno sfruttato Twitter e altri social network per organizzarsi e propagare la rivolta. Forse, oggi, Malaparte avrebbe intitolato il suo magnifico libro “Tecnica del colpo di status”.