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Trading ad alta frequenza. Arriva Terminator?

Chissà perché leggendo un paper della Consob sul trading algoritmico m’è tornata in mente Skynet, la macchina autoconsapevole del film Terminator che si diletta a sterminare gli umani. Forse perché nella pratica, ormai sempre più diffusa nelle borse, di lasciar fare a sofisticatissimi algoritmi il lavoro degli uomini cova la paura millenaristica dell’Armageddon. Di quello dei mercati almeno. O forse perché anche gli studiosi sono molto prudenti, per non dire preoccupati, circa la possibilità che tali sistemi di trading automatico creino notevoli disastri senza che nessuno sia capace di far nulla per fermali. Come Terminator, appunto.

Per avere un’idea della potenza di fuoco di questi strumenti, è utile sapere che un sistema di trading ad alta frequenza (high-frequency trading) è un sottoinsieme del trading algoritmico che elabora i dati del mercato in tempo reale e genera montagne di ordini, fino a 5.000 al secondo, capaci di amplificare i trend al rialzo o al ribasso. Questi sistemi si autoregolano e “imparano” in tempo reale utilizzando i dati del mercato disponibili e trasformandoli in ordini. Non sarà l’intelligenza artificiale di Skynet, ma poco ci manca. L’attività di questi robot telematici raramente supera l’intraday e, dal punto di vista operativo, si accontenta di rosicchiare esigui margini di profitto per ogni singola operazione, potendo contare sul loro numero rilevante.

Il paper della Consob contiene alcuni dati utili a comprendere la rilevanza del fenomeno nel nostro tempo. La commissione calcola che il ricorso al trading ad alta frequenza coinvolge una percentuale che oscilla fra il 10 e il 40% del totale degli scambi, a seconda dei paesi. In particolare, nella borsa italiana si calcola che il 20% degli scambi sul mercato azionario siano da attribuirsi a questi algoritmi. Una percentuale che arriva al 35-40% di tutti gli scambi nella Deutsche Boerse e al 40% di quelli della piattaforma Chi-X. Il mercato di Londra, il London Stock Exchange, quota un 33% di scambi automatici, mentre le borse americane ne fanno un uso più moderato. I particolare il Nasdaq di ferma al 13% e il Nyse al 23%. Sulla piattaforma Turquoise gli scambi robotizzati sono intorno al 21%. Dati, avverte la Consob “la cui affidabilità è compromessa dalle citate notevoli problematiche connesse alla identificazione degli HFTr”.

Di fatto non conosciamo l’esatta quantità di denaro che questa “intelligenza” artificiale fa circolare ogni giorno sui mercati. Sappiamo però che il segreto dei codici di questi algoritmi è uno dei meglio custoditi dagli operatori finanziari che ne fanno uso e che questa pratica di negoziazione è cresciuta esponenzialmente fra il 2007 e il 2011, ed è quindi destinata a crescere ancora. La Consob rileva che l’incremento maggiore in questi ultimi anni si è registrato negli Stati Uniti.
Ciò non vuol dire che sia destinata a crescere la trasparenza che circonda questo tipo di operazioni. Solo pochi paesi hanno adottato misure per identificare con certezza chi fa uso di trading algoritmico. In Europa, ad esempio, Francia, Italia e Portogallo non hanno al momento nessuna capacità di riconoscerli, al contrario di Danimarca, Irlanda, Finlandia e Svezia. Piccoli mercati, specie in confronto a quello londinese, che finora si è dimostrato possibilista, ma non ha ancora preso posizione.

Quello che però si può conoscere con ragionevole certezza è l’impatto che tali sistemi di negoziazione hanno sui mercati. “La diffusione dell’HFT – scrive la Consob – e, più in generale, del trading algoritmico può avere impatti di carattere sistemico nella misura in cui le strategie utilizzate dai trader che si basano su algoritmi risultano maggiormente correlate rispetto a quelle utilizzate dai normali trader. Si possono verificare, infatti, fenomeni di profonda e repentina destabilizzazione di uno o più mercati innescati da uno shock che colpisce un singolo algorithmic trader (AT) o HFTr: ad esempio un danno operativo (come il malfunzionamento dell’hardware) che a sua volta, influenzando le strategie degli altri AT/HFTr, può avere ripercussioni sull’intero mercato fino ad interessare anche altre trading venue, data l’intensa operatività cross market di tali operatori”.

Chi ricorda il crash americano del 1987, ricorderà anche che si disse che era stato provocato proprio dalla prima messa in opera di automatizzazioni degli scambi. ”In condizioni di mercato estremamente incerte – sottolinea ancora la Consob – la diffusione del trading ad alta frequenza può portare ad amplificare le pressioni ribassiste fino a generare situazioni di estremo disordine negli scambi”. E come esempio cita il “flash crash” del 6 maggio 2010, quando i mercati azionari Usa persero il 10% in pochi minuti per poi recuperare in giornata. “In quella circostanza – scrive la Consob – gli HFTr hanno avuto un ruolo decisivo nell’amplificare tale movimento, pur non avendone rappresentato la causa scatenante”.

In generale, la letteratura sul fenomeno sottolinea come dall’uso di tali strumenti provengano più ombre che luci. Il trading ad alta frequenza ha effetti potenzialmente negativi sull’efficienza, sulla liquidità, sull’accesso ai mercati, e sulla trasparenza. Il rischio che gli HFTr possano manipolare i mercati è molto alto.

Chiaro che gli enti regolatori si diano un gran daffare per emanare direttive e regolamenti che aiutino a prevenire i disastri. Ma, come sempre accade nella finanza, l’innovazione è sempre più veloce della burocrazia. Negli Stati Uniti, per dire, il fenomeno non ha ancora ricevuto nessuna regolamentazione. Ciò malgrado il crash del 2010, che ha prodotto corpose relazioni, ma nessun provvedimento.

Skynet ormai si evolve senza limiti. Chissà se i mercati conosceranno il loro Terminator.


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