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Spaventa, l’economista che si fece politico

La pipa, il panciotto, l’inglese perfetto, gli studi giusti (e le amicizie). Luigi Spaventa ha incarnato, insieme a Beniamino Andreatta, l’uno vicino al Partiito comunista e l’altro organico alla Democrazia cristiana, l’economista ad alta cara­tura teorica e a intensa carica politica (sia pur vissuta con l’aplomb del professore), una figura destinata a diventare così importante in Italia. C’era stata, naturalmente, l’alta eccezione di Luigi Einaudi, ma il nuovo soggetto tecnico-politico s’afferma nel tumulto degli anni ’70. Ed è allora che Andreatta e Spaventa esercitano una influenza importante. Si pensi al programma che ispira i governi di unità nazionale dal 1976 o alla svolta dell’euro imposta alla recalcitrante Cgil due anni dopo. Nel Pci, Spaventa era sostenuto da Giorgio Napolitano, spesso in polemica con i catto-comunisti Claudio Napoleoni, Giorgio Rodano e Luciano Barca. Suo grande amico è stato anche Alfredo Reichlin, ingraiano inquieto, francofono, ma britannico nelle flanelle e nelle cravatte regimental.

L’economista romano, nato nel 1934, pragmatico e sincretico, accettava le acquisizioni dell’economia neo classica ed era stato conquistato dal ruolo delle aspettative teorizzato da John Maynard Keynes. Molti hanno ricordato il percorso politico di Spaventa (parlamentare nelle liste del Pci, ministro del Bilancio con Carlo Azeglio Ciampi, sfidante, sconfitto in partenza, di Silvio Berlusconi a Roma nel 1994, presidente della Con­sob e poi del Monte dei Paschi a Siena). Pochi, il suo profilo di studioso. Uno degli ultimi lavori importanti lo ha dedicato al ruolo degli squilibri reali nell’area euro, che passano attraverso le bilance dei pagamenti. Europeista, condivideva con tutti i keynesiani le perp­lessità sulla moneta senza sovrano, non sostenuta da un bilancio unico e da una banca cen­trale interventista. Nel 1979 si era opposto all’ingresso della lira nel sistema monetario europeo, confortato dall’approccio critico di Paolo Baffi, governatore della Banca d’Italia, e contribuendo al voto negativo del Pci. Appoggerà poi l’adesione al trattato di Maastricht, ma con scetticismo: “Nec tecum nec sine te vivere possum” disse dell’euro.

Di Mario Monti non ha mai accettato il monetarismo, eppure bacchettava in continuazione chi cerca la scorciatoia inflazionistica; e guai a sottovalutare gli effetti iniqui e perversi del deb­ito pubblico sulla crescita e sui redditi. L’attenzione alle “compatibilità”, questo sì era il ter­reno comune con Monti e con il post-keynesiano Franco Modigliani (insieme sostennero nel 1981 l’abbandono della scala mobile). Riteneva indispensabile l’intervento anti-ciclico dello Stato, purché si indicasse dove e come prendere le risorse; e quando ritirare la mano pub­blica. Proprio analizzando la crisi corrente e le sfide che pone agli economisti, nel 2009 boc­ciò ogni superficiale “ritorno a Keynes” e attaccò lancia in resta la “banca ombra”, senza demonizzare la finanza.

(sintesi di un’analisi più ampia che si può leggere nel blog www.cingolo.it)

 


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