Il conto alla rovescia verso la tragedia inizia con un’atmosfera rilassata. Sono passate da poco le 21 e 30 del 13 gennaio 2012, il mare è calmo, la nave Costa Concordia, un gigante d’acciaio da 15mila tonnellate con 4.229 persone a bordo naviga verso l’isola del Giglio, in Toscana, per un passaggio ravvicinato: forse per un omaggio ai gigliesi Antonello Tievoli maitre della nave e Mario Palumbo, decano dei capitani Costa, con cui il comandante della Concordia, Francesco Schettino parla al telefono poco prima dell’incidente.
Palumbo non c’è ma l'”inchino” al Giglio si fa lo stesso. Sono le 21 e 42. Schettino ha appena ripreso il comando della nave che però è troppo veloce e troppo vicina al Giglio. All’improvviso lo schianto contro lo scoglio delle Scole.
Immediata la reazione di Schettino che urla i comandi per una manovra evasiva. A bordo è il panico. La nave resta al buio ma nessuno comunica ai passeggeri cosa stia succedendo e l’equipaggio minimizza anche con la Capitaneria di Porto.
In plancia, intanto, Schettino prende coscienza, con un’esclamazione in napoletano, della gravità. Dalla sala macchine invece, il direttore, Giuseppe Pillon conferma: stiamo andando a fondo.
Nel caos generale inizia il via-vai di telefonate tra Schettino, i vertici della Costa e i soccorritori. Viene deciso l’abbandono nave poi il capitano parla con Leopoldo Manna della Capitaneria di Roma con il quale ricostruisce l’accaduto.
Questa telefonata precede un’altra più famosa in seguito alla quale Schettino, intanto sceso dalla nave, ha guadagnato l’appellativo di “Capitan Codardo”. E’ la conversazione concitata con il comandante Gregorio de Falco della Capitaneria di Livorno. All’alba il bilancio parlerà di 30 morti e 2 dispersi.