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I gattopardi birmani e il grande gioco in Asia

Prima l’accusa ad Aung San Suu Kyi di aver intascato finanziamenti dagli oligarchi del vecchio regime, poi la ripresa degli attacchi dell’esercito contro la minoranza ribelle dei Kachin. La “primavera” birmana è già finita? No. Semplicemente perché il nuovo Myanmar è ancora troppo simile a quello precedente. Certo, adesso il partito della donna premio Nobel per la pace e icona della lotta per la libertà  è tornato in Parlamento dopo 20 anni. San Suu Kyi è stata accolta con grandissimi onori alla Casa Bianca, ha posato davanti al flash con Barack Obama e Hillary Clinton. La Ue ha deciso di cancellare le sanzioni economiche, gli Usa le hanno alleggerite. Ma nonostante le riforme i militari restano al potere. Sono una casta potentissima e vorace che ha fatto i propri interessi tenendo in ostaggio il Paese.  L’ex-generale Thein Sein, che oggi veste solo abiti civili, sta pilotando dall’alto un processo di democratizzazione, dopo essere stato uno dei pezzi più grossi della giunta militare.  Il dubbio è che dietro la parvenza di un governo civile si nasconda la prosecuzione del regime in forme più morbide. Sembrerebbe un abile calcolo di realpolitik, aprire all’Occidente per inserirsi a pieno titolo nelle relazioni internazionali, attirare investimenti e impedire che il Paese si riduca alla fame. L’avvicinamento del Myanamr agli Stati Uniti ha preoccupato parecchio la Cina.  Pechino è stato il principale partner del Myanmar nei decenni dell’isolamento internazionale.  Il paese delle pagode è una pedina fondamentale per la Cina. Importantissimo per la sicurezza degli approvvigionamenti energetici e strategico  nella corsa al controllo delle rotte marittime. I cinesi non hanno apertamente osteggiato la nuova amicizia tra Naypyidaw e Washington ma non possono permettersi di perdere il controllo sul Paese che rappresenta un corridoi strategico verso l’Oceano Indiano. Un articolo di Foreign Policy segnala come la dirigenza comunista stia cercando una soluzione per mantenere una certa influenza sul governo birmano. A Pechino pensano di poter fare da mediatori tra le etnie Kachin e Wa e il governo centrale. Il calcolo dei cinese è più che giusto. Se Thein Sein vuole continuare lungo il percorso di “redenzione” democratica, il Myanmar non può certo permettersi una guerra civile con le minoranze del Paese. La Repubblica popolare, la stessa che deve fare i conti con la repressione delle minoranze in Tibet e nello Xinjiang, pensa di avere le carte in regole per fare da paciere. Un modo per rendersi indispensabile e non smarrire definitivamente il Myanmar.

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