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Il trotto e il palio

Quando si dice il troppo e il troppo poco. A San Siro, per via del vistoso e progressivo calo delle scommesse, l’ippodromo rischia di chiudere i battenti lasciando a casa quasi tremila dipendenti e condannando al macello decine di cavalli. A Siena, la città del Palio, la Banca della città vive un difficile momento per via di talune ardite scommesse di carattere finanziario confezionate dai propri manager. Il paese è al passo.  Il mondo dei cavalli, così come quello della finanza, hanno una tecnicissima terminologia, un tecnicissimo gergo. Ed è esercizio linguistico, assai curioso, scoprire assonanze e contraddizioni di quello che, al di là della semantica, rimane pur sempre il vizio dell’uomo propenso al rischio: l’azzardo. Che poi è parola di origine araba: “az zahr” che sta per dado.
Se vi recate in una sala corse o in un betting center, e vi assicuro ne vale la pena perché c’è uno spaccato della società inimmaginabile con tanto di purosangue, ronzini, asini e bardotti, scoprirete che fare una puntata, anche solo per provare una volta, non è impresa facile. Le alternative sono tantissime e complicatissime. C’è il piazzato, il vincente, l’accoppiata, il tris, il quarté e il quinté. Che, se uno ci pensa, non sono poi così tanto diverse dalle complicatissime e tecnicissime operazioni finanziarie. Dietro alla definizione generica di prodotto derivato troviamo infatti: le call, le put, le swap, i futures, i titoli di tipo strutturato, e per i più esigenti anche quelle esotiche. Buona norma, e questo lo si capisce dall’infanzia, meglio se il denaro scommesso non appartiene allo scommettitore. Ovvio.
Insomma, il mondo della finanza è come un enorme ippodromo. Gli intermediari finanziari, malgrado il loro atteggiarsi molto sostenuto, fintamente forbito, dallo stilosissimo polsino e calzino col cinturino, non sono altro che una rivisitazione sociologica di Mandrake, Bruno Fioretti in “Febbre da Cavallo”, film cult con Gigi Proietti e Catherine Spaak. Quei personaggi che vivono in funzione delle puntate, del gioco. Che, con i loro di denari o con quelli altrui, sperano ogni settimana nel grande colpo. Più per obbedire al vizio che alla necessità. Più per soddisfare l’avidità che viene dall’illusione di poter generare denaro dal denaro.
Per chi è meno giovane, non sarà difficile ricordare “La Stangata”, film con Paul Newman e un giovanissimo Robert Redford, dove una finta sala per scommesse alle corse di cavalli, venne utilizzata per gabbare un potente gangster. Versione, mediante citazione cinematografica, dell’adagio machiavelliano del fine giustifica i mezzi. L’eterno problema di un paese al passo. Dove senza un fine si governa scambiando i fini con i mezzi. Lasciando soprattutto le redini del sempre più imbolsito paese nelle mani di improbabili fantini e driver che scommettono sulle stesse corse cui partecipano come protagonisti.
Per loro, vale la descrizione assai colorita fatta proprio dal protagonista di Febbre di Cavallo, Mandrake che di loro dice: «Chi gioca ai cavalli è un misto, un cocktail, un frullato de robba, un minorato, un incosciente, un regazzino, un dritto e un fregnone, un milionario pure se nun c’ha na lira e uno che nun c’ha na lire pure se è milionario. Un fanatico, un credulone, un buciardo, un pollo, è uno che passa sopra a tutto e sotto a tutto, è uno che ‘mpiccia, traffica, imbroglia, more, azzarda, spera, rimore e tutto per poter dire: Ho vinto! E adesso v’ho fregato a tutti e mo’ beccate questa… tié!. Ecco chi è, ecco chi è il giocatore delle corse dei cavalli. »

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