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La politica estera? Non solo campagna elettorale

In questa campagna elettorale, la politica estera è il grande convitato di pietra. Sarà perché Francoforte e Bruxelles, a forza di montagne russe borsistiche e spread, sono presenze abituali nella politica economica. Sarà perché qualsiasi compagine esca dalle urne avrà margini di autonomia e manovra risicatissimi e su un portafoglio di materie sempre più striminzito. Un fenomeno, quest’ultimo, di cui ha preso consapevolezza anche la cosiddetta massaia di Voghera, stereotipo d’antan dell’elettore medio (ma sarà mai esistito?).

Non stupisce quindi che diversi candidati abbiano scelto di giocare la campagna all’insegna della xenofobia d’accatto. La campagna di questi giorni è anche questo, un caleidoscopico vortice di slogan che vede inedite assonanze tra Beppe Grillo e Pdl/Lega Nord, e di commenti stranieri puntualmente amplificati o letti alla lente deformante del clima elettorale e dei suoi toni roventi. In questo gioco, un commento tedesco dedicato alle vicende italiane diventa per esempio una intollerabile ingerenza nelle questioni di casa nostra, una violazione della nostra sovranità, un affronto a cui controbattere con vigore.

Un editoriale del Financial Times, a sua volta, si tramuta di colpo nella prova regina del voltafaccia dell’aristocrazia venale angloamericana a Mario Monti. Eppure sappiamo tutti che questo clima da alta tensione svaporerà all’indomani delle elezioni, e che, improvvisatici cremlinologi, torneremo al tran tran di sempre. La politica comunitaria e le questioni monetarie, pur così importanti, sono ardue da sdoganare e asettiche, difficile che possano sortire un coinvolgimento prolungato, uno stato di trepidante concentrazione, se non in chi se ne occupa abitualmente.

Se invece guardiamo fuori dalla zona Euro e dall’Europa, le cose cambiano non poco. A differenza dei temi comunitari di cui tutti parlano, le partite sono giocate sottotraccia e non possono essere affrontate con lo sguardo corto da clima elettorale. Alcuni temi sono le proverbiali travi nell’occhio, come i rapporti con gli americani, così importanti che nessuno ne scrive. Chi, nel nostro panorama istituzionale, sarà garante dei buoni rapporti con Washington? Chi avrà la sensibilità di evitare che la dottrina americana di graduale disingaggio e della delega estesa (il “leading from behind”) diventi fonte di sforzi onerosi e dolorosi senza contropartita? Chi saprà far sì che il nostro impegno – e le nostre vittime – siano valsi a qualcosa? Chi saprà decidere se il Mali è cosa franco-francese o anche italiana perché interessa da vicino la sfera di interesse italiana in Maghreb e perché può essere una voce importante nella “delega” americana all’Italia?

Negli ultimi anni questo ruolo è stato assunto dal Quirinale, in virtù della particolare e irripetibile storia politica del suo inquilino ora a fine mandato. Il Colle è stato a lungo lo scrigno dei rapporti con l’America, se non di fette più ampie della nostra politica estera. Chi subentrerà a Napolitano come garante principale dei rapporti transatlantici, dovrà dunque gestire legami antichi ma anche dossier contingenti – come gli assetti strategici di Finmeccanica e le dismissioni avviate e poi stoppate, o le grandi partite energetiche e i delicati rapporti con il NordAfrica e la Russia. Sono temi importantissimi, su cui non sono ammesse esitazioni e né toni da campagna elettorale, e la regola aurea è quella della convenienza da Realpolitik.

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