Skip to main content

DISPONIBILI GLI ULTIMI NUMERI DELLE NOSTRE RIVISTE.

 

ultima rivista formiche
ultima rivista airpress

Le giuste pene per i banchieri a Siena spiegate da Mps

Grazie all’autorizzazione dell’editore e dell’autore, pubblichiamo il commento di Franco Talenti apparso sul numero odierno del quotidiano Italia Oggi diretto da Pierluigi Magnaschi.

In passato i banchieri disonesti, per quanto potenti, facevano una brutta fine a Siena. Ne fanno fede le 1.200 pagine di un fascicolo processuale del 1623 che racconta per filo e per segno un procedimento giudiziario a carico di Armenio Melari, camerlengo del Monte Pio, e dei suoi complici, accusati di avere sottratto al Monte una somma «davvero imponente» per quei tempi: quarantamila scudi.

Come racconta Giuliano Catoni in «I secoli del Monte», pregiato volume che la banca senese ha editato come recente regalo di Natale, il Melari era fuggito all’improvviso nella notte del 6 agosto 1623, proprio «quando il percorso per la costituzione del nuovo Monte sembrava ormai essere giunto a conclusione». Il Capitano di Giustizia e i suoi collaboratori non persero tempo. E, di lì a poco, misero sotto processo il Melari, contumace, e i suoi complici, tutti senesi altolocati che da anni ricoprivano incarichi importanti nella banca ed erano «sospetti di negligenza». Il processo durò 14 mesi e, come si usava allora, vide un ampio ricorso alla tortura per ottenere rapidamente che gli imputati confessassero le loro colpe.

Il primo a essere interrogato fu il cavalier Girolamo Lunadori, dell’Ordine di Santo Stefano. Per torturarlo, essendo un cavaliere, occorreva un permesso del granduca di Firenze, che lo concesse in un amen. Il Lunadori fu così condotto «alla Marcolina, la sala della tortura nell’ultimo piano del Palazzo civico», e «attaccato al canapo e fatto elevare, e dopo elevato, stato poco poco, disse: calatemi che voglio dire la verità. Allora fatto calare, posto a sedere et interrogato, rivelò i nomi di molti debitori del Melari. E di poi disse: scioglietemi che vi voglio dire un particolare che ne haverete gusto».

Il verbale, assai minuzioso, racconta che il cavalier Lunadori, sciolto dalle funi e rivestito, rivelò che mille scudi di quelli sottratti alla banca non erano finiti al fratello del fuggiasco Melari, come pensavano i giudici, ma nelle mani di «padre Maestro Agabito Simoni, teologo di San Martino».

Fine dei tormenti? Neppure per sogno. I giudici si convinsero che il cavalier Lunadori la sapesse lunga e non avesse affatto raccontato tutto ciò che sapeva. Così il giorno dopo lo riportarono alla Marcolina. «Dopo altri tratti di corda, il cavaliere gridò di farlo scendere perché avrebbe detto la verità». Tirato giù e fatto sedere, confessò di avere dato lui il cavallo al fuggitivo.

Ma ai giudici non bastò. E ordinarono altri tratti di corda. Poiché il cavaliere diceva di avere subito in passato una frattura e di non potere più patire quella tortura, i giudici lo fecero visitare dal cerusico di palazzo, che non trovò alcun segno di vecchie fratture. E così il cavalier Lunadori fu nuovamente «sospeso per lo spatio di un’hora intera d’oriolo a polvere». Il giorno dopo il Lunadori non poté lasciare il suo letto e i giudici «si contentarono di ratificare le sue dichiarazioni».

Dopo che al Lunadori, «l’esamine rigoroso della fune» fu applicato ad altri imputati, a volte con qualche variante. A Ubaldino Malavolti, che aveva denunciato una vecchia slogatura della spalla destra, fu «proposto il tormento della sveglia o capra». Terrorizzato, il Malavolti accettò la tortura della fune, fu accontentato, ma il giorno dopo il cerusico disse che non era il caso di insistere. Così fu rimandato a casa dietro pagamento di una cauzione di 4 mila scudi.

Un’altra variante fu introdotta per il cancelliere Selvi, che aveva 65 anni e fu giudicato incapace di sopportare il supplizio senza il rischio della vita. Così gli fu applicato il «castigo del dado», che consisteva nello stringere un piede dentro una morsa. Le confessioni furono ampie e di piena soddisfazione per i giudici.

La sentenza del processo arrivò il 29 ottobre 1624. Per il contumace Melari si stabilì «che fosse appiccato per la gola, con taglia di 200 scudi per chi lo avesse ammazzato, oppure di 400 scudi per chi lo consegnasse vivo alla giustizia». Quanto ai suoi due figli, considerati complici del furto alla banca, il primo fu condannato «alla galea a vita», e il secondo «alla galea per cinque anni, et ambidue in solido a risarcire il Monte di ogni danno patito».

Insomma, se nel 1624 il Monte di Siena veniva danneggiato, nessuno si poteva permettere di dire «li sbraniamo», quasi a difendere chi aveva provocato il danno. E se solo ci provava, veniva accompagnato alla Marcolina «per negligenza». Ma allora il Monte dei Paschi era una banca seria, da difendere dai ladri e dagli incapaci con ogni mezzo.

×

Iscriviti alla newsletter