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Ecco perché “soglia 75” è una patacca

Altro giro, altro slogan leghista: questa volta, dopo i sempre classici “padroni a casa nostra”, e la ballata dei costi standard, ecco che arriva la magica “soglia 75″. Cioè il rapporto tra tasse pagate e soldi ricevuti in cambio dallo Stato centrale, in una forma o nell’altra.

Per farsi un’idea, leggere questo pezzo di Rita Querzè sul Corriere di oggi. Dove si comparano le “soglie 75″ di altre regioni italiane e si scopre che, se i leghisti lombardi potrebbero sorridere, quelli piemontesi (governatore Cota in testa) avrebbero qualche serio problema. Intanto, i numeri: secondo l’autrice dell’articolo, che non cita fonti (peccato), la Lombardia oggi versa 173 miliardi in imposte e ne ottiene in cambio 114: fa il 66 per cento. Immaginiamo si tratti di tutte le tipologie di tributi: imposte dirette ed indirette. Per toccare la soglia del 75 per cento il Pirellone dovrebbe quindi ricevere da Roma ogni anno un assegno da 16 miliardi di euro. Che sarà mai?

Ma altre regioni, come il Piemonte, sono a quota 83 per cento: quindi che facciamo, togliamo soldi a Cota per darli a Maroni? Ci sarebbe poi il caso eclatante della Sicilia (e delle altre regioni a statuto speciale, immaginiamo), dove il rapporto tra imposte e trasferimenti è intorno al 120 per cento. Evidente che servirebbe una bella cura dimagrante. Siamo certi che tagliare una cinquantina di punti percentuali a tale quoziente sarebbe molto agevole. E comunque basta pensarlo intensamente.

Già oggi, ed a seguito della rif0rma del Titolo V della Costituzione, avvenuta nel 2001, restano sul territorio il gettito Irap (che serve al finanziamento del servizio sanitario), quello del bollo auto, una quota delle accise sui carburanti, l’addizionale regionale Irpef (che non tutte le regioni applicano). E già si leggono nell’articolo i mugugni veneti, per bocca dell’assessore al Bilancio, il leghista Roberto Ciambetti. E voi capite che il povero Veneto, su queste tipologie di entrate, parte svantaggiato.

I problemi sorgono sui grandi tributi. Come spiega il tributarista Tommaso Di Tanno,

«Le entrate di un’azienda che ha sede a Milano sono il risultato di prodotti venduti in tutta Italia. Anche al Sud. Senza contare che gli stabilimenti manifatturieri della nostra impresa potrebbero essere anche in altre regioni, o addirittura all’estero. Insomma, non diciamo bestialità»

Qui però si innescherebbero considerazioni di competizione fiscale nella localizzazione delle aziende, che tali imposte dovrebbero pagare. Storia lunga, come si intuisce. Abbiamo il sospetto che l’intera operazione sarebbe piuttosto macchinosa, e finirebbe col condurre a spinte secessionistiche, in associazione con il famoso concetto di macroregione. Tutto lecito, per carità. Solo, bisognerebbe far notare che, nel breve periodo, l’operazione sarebbe tipicamente a somma zero (io ricevo più trasferimenti dal centro, tu ne ricevi meno), e quindi la possibilità che ciò possa attuarsi è prossima allo zero, oltre a presentare numerosi elementi di attrito tra parti mobili di un paese slogato. Troppo pessimisti, dite?

(sintesi di un’analisi più ampia che si può leggere qui)

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