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Mattone, la bolla non c’è ma si vede

Qualche giorno fa l’Istat ha certificato l’ennesimo calo delle quotazioni del mattone italiano nel 2012. Il dato aggregato parla di un calo dei prezzi del 3,2% che si accoppia aun calo delle compravendite del 23,6% sul residenziale (25% il commerciale). Il combinato disposto ha riacceso il timore che il mattone italiano balli  sull’orlo di un burrone, anche perché le aspettative del settore delle nuove costruzioni, che ha un peso specifico rilevante nell’immobiliare italiano, continuano ad essere scoraggianti.

Lo stesso giorno che l’Istat certificava la deflazione in corso nei valori immobiliari, un’associazione di consumatori affermava che i prezzi sono ancora troppo alti, visto che per una famiglia di reddito medio è del tutto proibitivo, specie nelle grandi città, riuscire a comprare una casa: prezzi ancora troppo elevati, da una parte, e ritrosia delle banche a concedere credito dall’altra. Senonché la gran parte degli osservatori dice che in Italia, a differenza di quanto è accaduto in Spagna, Irlanda o negli stessi Usa, non esiste una bolla del mercato immobiliare.

Chi ha ragione? Anche qui, bisogna intendersi su cosa si intenda per bolla. La definizione che abbiamo estratto da Wikipedia dice che “la bolla immobiliare  è caratterizzata da un rapido aumento dei prezzi immobiliari che si portano a livelli insostenibili in rapporto ai redditi medi o ad altri parametri”.

Guardiamo i dati. Ci viene in aiuto uno studio di Bankitalia del 2009 intitolato “L’andamento del mercato immobiliare italiano e i riflessi sul sistema finanziario”, che per quanto datato (gli ultimi dati fanno riferimento al 2008), illustra con grande chiarezza cosa sia successo sul mercato negli ultimi anni.

Intanto l’incidenza del mattone sul Pil italiano, pari al 19,5%, più di Germania e Gran Bretagna (circa 18%), meno che in Francia e Spagna (circa 25%) e Irlanda (28%). Poi il peso degli immobili nel portafogli delle famiglie italiane. Nel 2008 il mattone in mano alle famiglie quotata 4.700 miliardi, il 61% delle attività complessive, pari a circa quattro volte il reddito disponibile, contro il 2,5 della Francia e il 3,1 della Germania.

E veniamo ai prezzi. Fatti 100 i prezzi del 2005, si vede che nel 2000 tale indice quotava 70, per arrivare a 120 nel 2008. Quindi dal 2000 l’indice è cresciuto di 50 punti, un incremento pari in media al 72%. Se si guarda agli incrementi per macroaree, si nota che i prezzi sono pressoché raddoppiati fra il 2000 e il 2008 nel centro Italia. Più o meno quanto è successo a livello nazionale in Spagna. Nel confronto internazionale si vede che la crescita dei prezzi in Italia è stata poco superiore alla media Ue, ma se si va a vedere la crescita per macroaree, viene fuori che l’impennata dei prezzi i alcune zone è assimilabile a quanto accaduto in Francia, Gran Bretagna e Danimarca. Evidentemente nel caso italiano, per calcolare la media dell’aumento dei prezzi vale la regola del pollo di Trilussa. Come dire la bolla c’è, ma distribuita qui e là. Perciò non si vede.

Un riscontro a quest’affermazione viene dall’analisi dei dati finanziari. Abbiamo detto che nel 2008 la ricchezza immobiliare delle famiglie era stimata in 4.700 miliardi. A fine 2011 (ultima relazione Bankitalia su ricchezza famiglie) le attività reali delle famiglie venivano stimate in 5.978 miliardi, l’84% delle quali (5.021 mld) sono abitazioni, circa 200 mila euro a famiglia, 65 mld in più rispetto al 2010, pari a un incremento dell1,3%, assai meno del 5,6% medio annuo registrato nel quidicennio 1995-2010. In particolare, fatta 100 la ricchezza in abitazioni delle famiglie nel 1995, l’indice è cresciuto costantemente fino a quotare oltre 220 nel 2010 per poi sostanzialmente stabilizzarsi sullo stesso livello fra 2011 e 2012.

Quindi le quotazioni (dalle quali dipendono i valori del patrimonio) sono più che raddoppiate in quindici anni.

E i redditi? Non c’è bisogno dell’Istat per sapere che di certo non sono raddoppiati, anzi hanno subito una sostanziale riduzione reale dopo l’introduzione dell’euro nel 2002. Tuttavia se ci andiamo a vedere la serie storica Istat (disponibile dal 1999 in poi) vediamo che a inizio 1999 le famiglie totali avevano redditi lordi disponibili per 195 miliardi, che sono diventati 276 a fine 2011: un incremento di circa il 43%.

Se ne deduce che il livello del reddito non ha seguito l’andamento dei corsi immobiliari. Tanto è vero che la Banca d’Italia scrive che le famiglie hanno sostenuto il proprio livello di consumi attingendo alla ricchezza immobiliare, “in un contesto di debolezza del reddito disponibile”. Ciò spiega bene perché negli ultimi due anni siano crollate le compravendite, ma i prezzi siano ancora stabili. In un contesto di “debolezza dei redditi” le famiglie ci pensano due volte prima di “svendere” la loro riserva di valore.

Un ultimo dato. Nel rapporto del 2009 Bankitalia scrive che i finanziamenti al mercato immobiliare (famiglie e imprese) del sistema creditizio pesano 550 miliardi, un terzo degli impieghi totali a fronte del 20% del 2000: il 13% in più in otto anni. Le banche italiane, perciò, sono notevolmente esposte sul mattone.

In queste condizioni le bolle, anche quando ci sono, è meglio non vederle.

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