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Gli Stati Uniti navigano troppo beatamente nei debiti

L’accordo di capo d’anno per scongiurare che il fantomatico Fiscal cliff non è una vittoria della stabilità. Dovrebbe invece essere considerato un rischio ulteriore di instabilità per il resto del mondo, in primis per l’Europa.

L’evento ha una valenza tutta americana, molto importante per i giochi di potere interni. Sancisce però una politica complessivamente fallimentare, sia dei democratici che dei repubblicani, nella gestione della finanza. Si sono trovati i 600 miliardi di dollari necessari per evitare, almeno sulla carta, che alcune spese per il welfare vengano automaticamente bloccate e alcune agevolazioni fiscali siano cancellate.

In realtà l’accordo «partorisce» un aumento del debito per ben 4 mila miliardi di dollari nel prossimo decennio! La stima non è fornita da una qualche fucina ideologica neoliberista anti Obama, bensì dal prestigioso e indipendente Congressional Budget Office.

Come noto, il Cbo è un’istituzione finanziata dal Congresso per analizzare i costi delle politiche di bilancio. Il suo direttore viene nominato congiuntamente dai presidenti della Camera e del Senato. L’attuale direttore, Douglas Elmendorf è stato scelto nel gennaio 2009 quando entrambi i presidenti erano democratici.

Il Fiscal cliff quindi non è la vera emergenza finanziaria americana. Si è trattato piuttosto di un «preparativo» psicologico. La vera emergenza che gli Usa devono affrontare è invece lo sfondamento del tetto del debito pubblico!

A fine anno infatti il debito pubblico americano ha raggiunto il «ceiling», cioè il tetto massimo stabilito dalla legge finanziaria di bilancio che è di 16.400 miliardi di dollari, equivalente al 103% del Pil. Sarebbe dovuto bastare fino al 30 settembre 2013, cioè fino alla scadenza del bilancio annuale. Ma così non sarà.

Che succederà adesso? Fino a settembre di fatto non c’è copertura per le spese di bilancio, per tutte le spese. Il ministro del Tesoro Tim Geithner ha detto che il suo Ministero ha già raggiunto il limite dei prestiti possibili e ha affermato che possono trovarsi «altri mezzi per raccogliere fondi per pagare il debito» per un periodo massimo di 6-8 settimane.

Al di là dei trucchetti contabili, il dato è che gli Usa sarebbero tecnicamente già in default! Una situazione simile si era già creata nell’agosto del 2011, quando il bilancio federale era stato prosciugato e mancavano i soldi per i pagamenti dei dipendenti pubblici, dei fornitori, degli assegni di disoccupazione, delle pensioni, ecc. Allora, come si ricorderà, si decise di alzare il tetto del debito pubblico di ben 2.000 miliardi di dollari!

In poco più di un anno però questi fondi sono stati bruciati senza significativi effetti per l’economia americana. Certo sì evitato l’immediato aumento della disoccupazione e della povertà ma non si è rimesso in moto l’economia. Sono mancate una vera strategia di ripresa della produzione e degli investimenti e una più giusta riforma fiscale. In sintesi, al di là delle note schermaglie ideologiche, gli Usa, sia il governo Obama che il Congresso nel suo insieme, si stanno muovendo verso un ulteriore aumento del debito pubblico. Nulla di nuovo sotto il cielo.

Infatti la politica di crescita del debito e della liquidità è quella che da anni porta avanti la Federal Reserve di Ben Bernanke. Il suo bilancio (balance sheet) è passato da 869 miliardi del 2007 a 2.880 miliardi del 2012. Ben 2/3 dei titoli del Tesoro americano che arrivano sul mercato vengono comprati dalla Fed.

Dopo aver deciso lo scorso settembre l’acquisto di mortgage-backed securities, quei titoli tossici legati ai mutui subprime, per 40 miliardi di dollari ogni mese, la Fed, a novembre, ha deciso di acquistare mensilmente 45 miliardi di dollari di bond del Tesoro e di altre obbligazioni simili a lungo termine e in cambio di vendere i ben più appetibili titoli a breve scadenza in suo possesso. È un altro bel regalo al sistema bancario americano!

Queste decisioni non potranno che produrre uno choc per l’intero sistema finanziario mondiale. I paesi emergenti lo dicono da tempo denunciando i riverberi negativi sulle loro economie e sulle loro monete. In questo scenario, l’Europa è spiazzata. In un sistema globalizzato, dove la finanza opera per vasi comunicanti, i governi europei si sono ingessati con il «fiscal compact», mentre gli Usa alzano a piacere il tetto del loro debito pubblico.

Inoltre, in un sistema bancario senza riforme, le banche americane sono agevolate dalle politiche della Fed, mentre quelle europee sono compresse dai parametri richiesti da Basilea III. Purtroppo in Europa c’è chi irresponsabilmente chiede di fare come negli Usa. Secondo noi, invece, queste ricette sono disastrose. Non ci sono scorciatoie, né serve l’illusione psicologica di chi vuol vedere «la luce alla fine del tunnel». Occorre affrontare insieme e alla radice le cause della crisi globale e rimuoverle, senza nasconderle come si continua a fare.

Mario Lettieri (sottosegretario all’Economia del governo Prodi) e Paolo Raimondi (economista)



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