Il think tank di Washington Csis (Center for strategic and international studies) ha passato in rassegna le principali questioni di sicurezza nazionale e globale che aspettano Obama nel suo secondo mandato. Lo studio, intitolato “2013: Critical Questions”, individua come primo punto all’ordine del giorno una strategia difensiva più adeguata alle sfide del budget americano. È un tema su cui il Csis ha da tempo intavolato un dialogo tra militari e civili e tra parti politiche diverse, in pieno spirito “bipartisan” contro la “mannaia” della sequestration.
Secondo Clark Murdock, senior adviser dei progetti nucleari del Csis, gli Usa dovranno imparare a “fare di meno con meno risorse”, a partire dalla ristrutturazione della triade nucleare (sottomarini, bombardieri, missili balistici), laddove la vecchia proposta di investimenti da 215 miliardi di dollari l’anno nel decennio 2010-2020 è al tempo stesso insufficiente dal punto di vista operativo e irrealistica dal punto di vista finanziario. Lo stratega Anthony Cordesman rileva che gli Stati Uniti spendono relativamente poco in difesa, solo il 4,7% del Pil nel 2011 contro il 5,4% di vent’anni prima, e nota che per le “operazioni impreviste oltremare” sono disponibili nel bilancio 2013 solo 85 miliardi di dollari, su un totale di 633. Appena sufficienti, par di capire, per affrontare crisi gravi in Iran, Nord Corea o altri punti del Pacifico.
Ma l’affermazione più sorprendente è forse quella di Gerald Hyman, senior adviser dei progetti di governance del Csis, secondo cui non è tanto la Siria, l’Egitto, l’Iran o l’Af-pak (Afganistan-Pakistan) a creare tensioni per gli equilibri globali, ma il debito e il deficit, che “rappresentano minacce fondamentali ai bastioni della stabilità mondiale”, ovvero Europa, Stati Uniti e Giappone. Questo perché le istituzioni democratiche “riflettono accuratamente, quasi alla perfezione, le loro constituency”, oscillanti tra la consapevolezza che bisogna ridurre le spese e aumentare le entrate, e l’indisponibilità a pagare la ristrutturazione dello Stato. Manca dunque una leadership democratica in grado di “convincere le opinioni pubbliche a tradurre in pratica l’appoggio teorico alle politiche dolorose cui in realtà le stesse si oppongono”. Gli viene in supporto James Andrew Lewis, direttore del programma politiche pubbliche e tecnologiche, secondo cui “la deregulation è fondamentale, ma negli Stati Uniti si è tradotta in sacrificio del bene comune piuttosto che in riforme pro-competizione”. Inoltre si chiede retoricamente se, insieme alla spesa militare cresciuta del 50% dal 2005 ad oggi, sia cresciuta anche la sicurezza del Paese.
Il secondo mandato di Obama, secondo Robert D.Lamb, direttore del programma “crisi, conflitti e cooperazione” (C3), vedrà un aumento dello scetticismo verso un ruolo “muscolare e pubblico” degli Usa. Di fronte alle crescenti pressioni a “fare qualcosa” nei vari scenari di crisi, Obama dovrà mantenere sangue freddo, perché è ormai chiaro che “se gli Usa possono salvare alcune vite nel breve termine, la loro capacità di influenzare nel lungo termine gli eventi è molto più limitata”. Ecco perché, ipotizza Lamb, il 2013 potrebbe essere l’anno del rilancio di strumenti civili e politici multilaterali in grado di evitare “un aperto ruolo militare americano”.
Nelle relazioni euroamericane, Heather Conley, direttrice del programma sull’Europa, ritiene che il 2013 sarà una sorta di ultima spiaggia per Usa e Ue, che se vorranno rilanciare un “ordine internazionale liberale” messo in crisi dall’avanzata degli emergenti, dovranno puntare decisamente su un accordo di libero scambio transatlantico, in grado di “determinare gli standard del commercio globale per decenni”. Tuttavia, nota la Conley, i leader atlantici non sembrano pensare a questa grande sfida, preferendo “l’arte dell’improvvisazione” (come la cancelliera tedesca) e della sopravvivenza.