Il gruppo californiano non ha avuto affatto vita facile nel Paese della Grande muraglia, soprattutto dopo il suo tentativo di aiutare gli internauti contro la censura, tanto che ieri Google ha rimosso dal suo motore di ricerca la funzione che avvertiva che la parola che si stava cercando poteva essere sensibile per la Cina e quindi la ricerca veniva bloccata. La decisione della società di Mountain View di interrompere il servizio sarebbe nata alla fine di un lungo e tormentato braccio di ferro con le autorità cinesi, cominciato lo scorso giugno. Ma la diatriba tra Google e il sistema cinese di censura su Internet non è recente e spinse il gigante informatico a spostare i suoi server a Hong Kong nel 2010.
Ecco di seguito l’analisi di Pieranni.
Immaginiamoci se nello scontro che Google ha avuto con la Cina nel 2010, avesse fatto quanto molti attivisti cinesi – e osservatori internazionali – speravano: svelare i meccanismi censori del governo di Pechino. Sarebbe cambiata per sempre la percezione di Big G in Cina e sarebbe calato un sipario storico sul misterioso sistema di censura della macchina propagandistica cinese. In quel periodo Google, infatti, avrebbe potuto rendere note informazioni riservate, svelando parole proibite e metodi di occultamento dei contenuti richiesti da Pechino, assolvendo così alla sua decantata “battaglia di libertà in Cina”. Invece, si spostò ad Hong Kong, come vedremo su imbeccata di Pechino, comportandosi esattamente come uno Stato. Diplomatico,determinato, e custode dei propri e altrui segreti. Niente opera di trasparenza, niente afflato di libertà. E dire che la sua battaglia in Cina era stata scandita proprio da una richiesta di maggiore trasparenza, conclusasi con una rottura dal sapore molto più commerciale che etico. I fiori portati in un primo tempo sotto gli uffici di Google a Pechino, da cinesi innamorati e fiduciosi nel freddo gennaio del 2010, si trasformarono in accuse, da amanti traditi, quando Big G decise di andarsene senza svelare niente. I cinesi che avevano sperato in Google rimasero delusi, segnando per gli anni a venire il destino del motore di ricerca più grande del mondo nell’ex Celeste impero.
La storia di Google in Cina, infatti, non è una storia di successo, anzi. È l’azienda che paga di più i propri lavoratori (media di 2278 euro al mese, secondo un’indagine di IResearch), ma non sfonda: nel Paese della Grande muraglia la sua quota di mercato, infatti, oggi si ferma al 16,7% (secondo gli ultimi dati forniti da MarketWatch di Pechino). Non si può sostenere che il gigante del web americano abbia avuto vita facile in Cina: ancora oggi senza una vpn (virtual private network) è quasi impossibile accedere ai suoi servizi e nel tempo ha scontato un funzionamento parziale dei servizi, come documents, la ricerca per immagini e gmail, il servizio di posta elettronica. Nel corso della sua vita cinese, ha affrontato accuse per la produzione di ricerche contenenti materiale pornografico, le lamentele ufficiali da parte de Il quotidiano del popolo (l’organo di stampa del Partito comunista cinese), secondo il quale Google lo censurava nelle sue ricerche, infine la protesta degli scrittori cinesi, arrivata anche in tribunale con una causa per violazione delle leggi sul copyright, per il servizio Google books in cinese.
Il momento più alto delle tensioni tra Mountain View e Cina arriva dunque nel 2010: si tratta di una storia con le consuete e immancabili “caratteristiche cinesi”. Quando Google decise di sbarcare in Cina, aveva bisogno di un uomo capace di aprirgli il mercato, creare le connessioni giuste, identificare in Cina il modus operandi ottimale per diventare leader di un mercato già potenzialmente vasto. Nel 2005 Mountain View scelse Lee Kai-Fu, non senza drammi. Il manager cinese, infatti, era niente meno che dirigente di Microsoft. A Redmond non la presero molto bene, anzi: scattarono insulti e denunce, risolte solo molto tempo dopo per vie legali. Lee Kai-Fu invece, non fece una piega: cominciò a posizionare il motore di ricerca nell’on-line cinese, dopo aver stretto accordi con le autorità. Anche Google, in cambio degli utenti cinesi, aveva accettato l’armonizzazione, parola utilizzata in Cina per parafrasare la censura governativa. Google – sebbene armonizzato però – non ha mai sfondato. Contemporaneamente alle attività di Big G cresceva sempre di più Baidu, motore di ricerca made in China, molto più utilizzato dai cinesi e più facilmente accessibile. Le quote di mercato di Google ad inizio del 2010 erano dunque inferiori e di molto. Poi la situazione precipita: nel 2009 Lee Kai- Fu se ne va, giustificando la sua scelta con la volontà di creare una società in grado di aiutare le start-up tecnologiche dei giovani cinesi. Nel gennaio 2010 a seguito di “attacchi informatici provenienti dalla Cina”, Google minaccia due eventi: togliere i filtri alle ricerche del proprio motore di ricerca in Cina e andarsene dal Paese.
Google – al termine di una polemica con le autorità cinesi – annuncia di spostare tutti i propri servizi ad Hong Kong. Una mossa in apparenza a sorpresa, che da fonti bene informate, pare sia arrivata su imbeccata diretta di Pechino, che avrebbe suggerito a Google lo spostamento nell’ex colonia, per porre fine ad una vera e propria guerra diplomatica, che aveva portato a tuonare contro la censura cinese anche il segretario di Stato americano Hillary Clinton. Risolta apparentemente la diatriba, sono rimasti i misteri, svelati via via nel corso degli ultimi tempi, attraverso nuove rivelazioni e l’emergere di inedito materiale giornalistico. L’arcano che si sarebbe nascosto dietro “gli attacchi informatici”, si svela al pubblico internazionale quando vengono rilasciati i cable delle ambasciate americane da Wikileaks. Attraverso uno di questi documenti, si scopre che Li Changchun, classe 1944, membro del Politburo del Partito comunista cinese, un giorno decide di ricercare il proprio nome su Google.
Per il funzionario cinese la scoperta del risultato fu un’amara sorpresa, arrecatagli dalla scoperta di articoli e opinioni contrarie al suo operato. Da questo affronto sarebbe partita la volontà personale del dirigente cinese di ostacolare il motore di ricerca di Mountain View. Tutto per un dilemma, un maodun, come dissero i cinesi: una contraddizione. Questa ipotesi metteva in secondo piano un ragionamento che in quei giorni aveva percorso la rete cinese: si riteneva infatti che lo strappo fosse stato spinto da Pechino per favorire Baidu a discapito di Google, nel mercato di Internet più vasto del mondo. Nei cable di Wikileaks, però, non mancava la conferma di una vicinanza tra Google e l’apparato dirigente politico americano, che fece infuriare e non poco, anche i sostenitori cinesi del motore di ricerca di Mountain View e che ancora oggi intacca le possibilità di espansione di Google in Cina.