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Il piano della Cgil per il lavoro? Irrealizzabile

Anche se non sotto il profilo formale, la campagna elettorale è già iniziata sotto quello sostanziale. I candidati dei maggiori schieramenti pongono la crescita dell’economia e dell’occupazione come il primo obiettivo della loro azione di governo (ove avessero la responsabilità di guidare il Paese).

Soltanto uno schieramento sui tre ha fatto proposte specifiche (lasciamo ai lettori l’onere di individuare qual è); tuttavia, si tratta di proposte di misure puntuali ma non inserite in un quadro generale. Gli altri due hanno tracciato il quadro (con tratti di pennello più o meno precisi) ma non sono entrati nella strategia e nei programmi.

Nessuno dei tre schieramenti, infine, ha effettuata la distinzione – lo ha ricordato Lucrezia Reichlin sul Corriere della Sera del 13 gennaio – tra problemi (e politiche) congiunturali e problemi (e politiche) strutturali e ha sottolineato la necessità che le prime siano compatibili con le altre. E viceversa.

Un sforzo in questa direzione – occorre ammetterlo – è nel programma per il lavoro della Cgil di cui ci sono ampie anticipazioni sui quotidiani del 14 gennaio e che verrà presentato alla conferenza programmatica dell’organizzazione il 25-26 gennaio. Il programma per il lavoro Cgil affronta il tema della disoccupazione (soprattutto di quella giovanile) nel contesto sia degli effetti della recessione internazionale ma avendo come obiettivo la ristrutturazione dell’economia e della società italiana.

Nel lavoro si vede la mano dello Stefano Fassina che ebbi modo di conoscere a Washington, quando non essendo lui rimasto al Fondo monetario internazionale (dopo un primo contratto) ebbe una consulenza con il Banco interamericano di sviluppo. Si trovava a lavorare su un volume (Workable Pension Systems) a cui io contribuii con un’analisi dei sistemi previdenziali a contributi definiti.

Nel volume finale non appare un capitolo a sua firma; non sta a me dire perché. Posso però dire che ebbi modo a lunch di scherzare su economisti giovani nati con idee vecchie. In effetti, allora era un keynesiano quasi radicale, e, a mio avviso, aveva letto Keynes con gli occhiali appannati. Lo è ancora di più nel programma per il lavoro, anche se il Lord britannico è coniugato con il non recentissimo Schumpeter.

Al di là di queste quisquilie accademiche, il punto focale del programma per il lavoro Cgil consiste nel come trasformare, facendo leva su una più piena mobilizzazione e utilizzazione della forza lavoro, l’Italia in una società a socialismo reale con una forte espansione (dall’alto) del perimetro del settore pubblico e una forte espansione (dal basso) di forme imprenditoriali su base cooperativa e consortile.

Non sta a me dire se tali obiettivi sono giusti o sbagliati: è un giudizio di merito che dipende dalle preferenze di ciascuno. Sembrano, comunque, scarsamente compatibili con la permanenza dell’Italia nell’Unione europea, e in particolare nell’unione monetaria. Sotto il profilo tecnico, ciò è dimostrato dal fatto che il programma sottintende un aumento del prelievo fiscale e para-fiscale di 40 miliardi di euro l’anno, e di 80 miliardi su tre anni, oppure deficit spending. Facile prevedere che nella situazione di finanza pubblica dell’Italia ciò equivarrebbe non a un tagliando rosso ma a un invito all’uscita.

La nuova imposizione fiscale (per finanziare la spesa aggiuntiva) arriverebbe da una nuova  patrimoniale (ma non esistono già Imu e bolli su conti correnti e conti a risparmio?) e da aumenti all’imposta sulle transazione finanziarie (da compensare con ritocchi a redditi più bassi). Abbastanza da fare scappare investitori nostrani e stranieri (ove fossero interessati a operare nel Belpaese). In tal modo non ci metterebbe sul sentiero della crescita ma su quello di un ulteriore progressivo impoverimento di tutti. In apertura di A Moveable Feast, Ernest Hemingway ha la splendida frase Eravamo così  poveri e così felici!, ma si riferisce alla sua giovinezza a Parigi non a ciò a cui mirano gli italiani.

Un quarto dei 40 miliardi l’anno dovrebbero essere destinati al “Programma Italia”; un vasto schema di lavori pubblici. Un altro al sostegno dell’occupazione, principalmente tramite la stabilizzazione dei precari. Il resto verrebbe diviso tra ammortizzatori sociali e riduzione delle aliquote sui redditi bassi.

Occorre chiedersi se le destinazioni specifiche verranno vagliate secondo le procedure di analisi costi benefici del Dpcm del 9 agosto 2012 seguendo le specifiche tecniche del documento di Osservazioni e Proposte del CNEL del 18 dicembre 2012. Stefano Fassina ha più volte ammesso di avere scarsa dimestichezza con queste technicalities ma senza dubbio tra i suoi associati e collaboratori ci saranno esperti della materia.

Il punto centrale, però, è se si crea crescita e occupazione espandendo il settore pubblico e con una strategia di tax and spend. Ho seri dubbi. Suggerisco di leggere un lavoro quantitativo che con un’analisi econometrica (non con asserzioni) prova il contrario: lo studio di Matti Viren del servizio studi della Banca centrale finlandese How can growth accelerated in Europe – Bank of Finland Research Discussion Paper n. 29/2012 oppure il lavoro di tre italiani (Nicoletta Batini, Giovanni Callegari e Giovanni Mellina) che sono rimasti in servizio al Fondo monetario (il Working Paper n. 12/190) su i casi di succesful austeriti negli USA, in Europa ed in Giappone. Sono lavori recenti che potrebbero indurre a ritoccare il programma prima della conferenza del 25-26 gennaio.

Sono suggerimenti ad adiuvandum per giovani colleghi a cui auguro per il futuro migliori successi nel mondo accademico di quelli avuti sino ad ora.

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