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La trattativa presunta e quella fallita

trattativa stato-mafia

“La trattativa ci fu e fu condotta da vertici dello Stato con un chiaro mandato politico”. Così il pubblico ministero palermitano, Nino Di Matteo, ha motivato le sue richieste di rinvio a giudizio per gli undici indagati nel procedimento sulla presunta trattativa fra Stato e mafia nel biennio ‘92/’93.

Tra questi, gli ex ministri Nicola Mancino e Calogero Mannino e il senatore Marcello Dell’Utri, gli alti ufficiali dei Ros, Mario Mori, Subranni e De Donno. E i boss Brusca, Riina e Bagarella.

Era la stagione delle stragi di Capaci e via D’Amelio. Del sangue di Falcone, Borsellino, degli uomini della scorta, ma anche di Salvo Lima.

Già, tutto cominciò dall’omicidio del più chiacchierato dei parlamentari Dc, considerato vicino alle cosche. Punito perché non avrebbe preservato i suoi “amici” dalle dure pene inflitte loro al maxi processo di Palermo, a gennaio 1992.

Secondo il pm Di Matteo, fu quello “l’attentato di Sarajevo” che indusse Calogero Mannino – minacciato da Cosa Nostra per le stesse “colpe” di Lima – ad attivarsi per aprire un ponte di dialogo fra Stato e mafia. Bisognava sistemare le cose, senza ulteriori spargimenti di sangue. E secondo la Procura di Palermo, la trattativa si chiuse proprio su queste basi. Le cosche chiesero allo Stato cose molte concrete, come il mancato rinnovo del carcere duro (il cosiddetto regime di 41 bis) per centinaia di loro affiliati. Un provvedimento effettivamente varato in seguito dall’allora ministro della Giustizia, Giovanni Conso. Di Matteo sostiene che fu il capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro a caldeggiare la nomina di Conso, al posto di Claudio Martelli, proprio per dar seguito agli accordi presi con Cosa Nostra.

Proprio ieri, anche il presidente della commissione parlamentare antimafia ha presentato la propria relazione sugli anni delle stragi e sulla trattativa. Secondo l’ex responsabile del Viminale, ci fu un tentativo di intesa fra alcuni “pezzi dello stato” – fra questi i carabinieri dei Ros – e la mafia, senza che i vertici delle istituzioni (e quindi Scalfaro) ne fossero a conoscenza.

Il pm Di Matteo ha chiesto il rinvio a giudizio di Nicola Mancino “solo” per falsa testimonianza e non per “attentato al corpo politico dello Stato”, come per gli altri indagati. E ha detto, nella sua requisitoria, che questa sarebbe l’imputazione richiesta anche per Scalfaro, qualora fosse vivo.

Resta comunque difficile fare luce su quegli anni. Lo Stato non doveva fronteggiare solo l’offensiva di Cosa Nostra. Il Paese era colpito da una pesante crisi economica. Gli italiani ricordano ancora il prelievo coatto del sei per mille sui loro conti correnti, operato dal fisco di notte e nel fine settimana. Ma erano anche gli anni di tangentopoli, gli anni della fine della democrazia dei partiti e di uno stato molto debole.

Al di là di questo, c’è un fatto sui rapporti fra Giovanni Conso e Oscar Luigi Scalfaro. Fu l’allora capo dello Stato, a marzo 1993, ad affossare il cosiddetto decreto “Conso”, che depenalizzava il finanziamento illecito ai partiti. La “soluzione politica” a Tangentopoli. Un decreto figlio di un’altra presunta trattativa intervenuta in quegli anni. Quella fra stato e Procura di Milano, per dare una soluzione politica a Tangentopoli.

Il decreto Conso fu il primo decreto legge della storia non firmato da un presidente della Repubblica, come racconta l’ebook “La trattativa fallita” che ho scritto per Formiche. Secondo gli ex parlamentari Luigi Covatta e Paolo Cirino Pomicino, Conso aveva concordato il “suo” decreto in  ogni virgola con la presidenza della Repubblica, data la delicatezza della materia, oltre che con emissari del pool. Subito dopo il “gran rifiuto” di Scalfaro, Conso offrì le sue dimissioni, che furono congelate in attesa che si chiarisse tutto il quadro politico attorno al governo presieduto da Giuliano Amato. Dopo un mese, l’esecutivo entrò in crisi e il nuovo premier, Carlo Azeglio Ciampi, richiamò Conso a via Arenula.

Su Ciampi, la relazione di Pisanu lo ritiene estraneo alla trattativa Stato-mafia.

Quanto a Claudio Martelli, si dimise da ministro della giustizia il 10 febbraio, perché destinatario di un avviso di garanzia per bancarotta fraudolenta, inviatogli dal pool di Milano in uno dei tanti procedimenti su Tangentopoli.


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