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Arabia Saudita, una potenza ambigua e irriverente

Armare i bravi giovani siriani. Turki al Faisal Al-Saud non ha dubbi. Per l’ex responsabile dei servizi segreti di Ryad l’unico modo per mettere termine al conflitto civile di Damasco sta nella “parità militare” tra il regime ufficiale e i suoi oppositori. Radicalizzazione della resistenza ad Assad, conseguenze di un possibile intervento israeliano nel conflitto, distribuzione di armi agli insorti. Anche su questi argomenti affrontati in una intervista alla Frankfurter Allgemenie Zeitung il principe saudita è categorico. In Siria il regime al potere se ne deve andare. Chi l’avrebbe mai detto. A meno di due anni dal sollevamento che per ora ha spazzato via tre capi di stato arabi, il regime saudita si presenta come il grande regolatore dei conflitti in corso. Ma il vero ruolo di Ryad è forse un altro. Risparmiata dalla contestazione interna, senza dimenticare i disordini nella provincia orientale sciita del paese, l’Arabia Saudita è l’autentico bastione della controrivoluzione. Sorpreso dai cambiamenti egiziano e tunisino, esasperato dall’abbandono di Honsi Mubarak da parte dell’amministrazione americana, il regime dei Saud è rientrato in gioco orchestrando il cambio di potere in Yemen. Paese povero i cui conflitti interni ricordano quelli sauditi. Le fobia di un ambiente esterno rivoluzionario e ostile spiegano anche il ruolo attivo di Ryad nella repressione, marzo 2011, della “primavera del Bahrein”.

La svolta wahabita arriva però nel 2012 armando gli anti alawiti di Damasco e ostacolando l’ascesa di forze ostili in Egitto. Ma è in Siria che la monarchia wahabita abbandona una tradizione diplomatica “quietista” mobilitando gli ambienti salafiti sotto la propria influenza. Il tentativo di Ryad, rovesciare a proprio favore l’ondata contestatrice araba, è paradossale e pericoloso. Una decisione precipitata e dovuta in gran parte ai timori del gioco iraniano.

La Siria è il perno tra i Paesi del Mediterraneo orientale, dove domina il conflitto arabo-israeliano, e il Golfo persico, baricentro della rivalità irano-saudita e quella sciita-sunnita. Questi i motivi per cui Ryad vuole a tutti i costi il cambio a Damasco. Privata di Damasco, Teheran perderebbe l’alleato fondamentale. La vittoria anti Assad darebbe a Ryad la possibilità di integrare la Siria nella famiglia arabo-sunnita che i Saud vogliono guidare. Per levare di mezzo il regime alawita, l’intervento Nato è escluso dall’opinione pubblica araba, i wahabiti inizialmente puntano sulla Lega araba. Il modello è l’operazione fatta con il presidente yemenita. Come Saleh, Assad deve abbandonare “dolcemente” il potere. Vice presidenza di facciata prima della definitiva uscita di scena. Ma a differenza di quanto avvenuto a Sanaa, a Damasco i sauditi non hanno influenza su Assad.

La nuova scommessa wahabita punta a ripetere quanto successo in Libano nel 1982 e Kuwait nel 1991. Servono però i soldati Onu per togliere le castagne dal fuoco. Un tentativo “umanitario e internazionale” bloccato dai veti russo e cinese. A Mosca e Pechino il piano non ricorda lo Yemen ma l’intervento Nato in Libia.

Un altro boccone amaro la dinastia Saud lo ingoia nel febbraio 2012. La conferenza di Tunisi degli “Amici della Siria” rende chiaro che nemmeno gli Stati Uniti vogliono scottarsi nel calderone siriano. Questa volta Saud al-Faisal perde le staffe. Il ministro degli esteri saudita abbandona la sala accusando “l’impotenza” di Washington. La rabbia di Ryad è tanto più corposa in quanto le élite saudite ritengono che eliminando Saddam Hussein, gli Usa hanno messo Bagdad su un piatto d’argento per servirlo a Teheran. Ora però non intendono muovere un dito per strappare la Siria al patto del diavolo con l’Iran.

Finiti i tentativi diplomatici l’unica opzione disponibile è quella della “guerre comme à la guerre”. O qualcosa di simile. In mancanza di soldati stranieri sarà l’Arabia saudita a rafforzare la resistenza fornendo armi all’insurrezione. Anche in questo caso però Ryad  si richiama a un modello. L’Afghanistan della crociata antisovietica. Come fatto nella guerra dei mujaheddin contro il comunismo ateo, la vittoria siriana arriverà grazie a soldi, armi e addestramento militare. A libro paga di Ryad. Un modello a doppia lama per chi ricorda il seguito della rivolta afgana. Da li è sicuramente venuto il colpo decisivo alla fine dell’Urss, contemporaneamente quella strategia ha dato vita al terrorismo attuale. Jihad e al-Kaeda nascono in Afghanistan. Una schema che potrebbe ripetersi in Siria. Più cresce la violenza delle battaglie, più i combattenti della libertà siriana rischiano di diventare i fanatici dell’estremismo futuro. Ma su questo Turki al Faisal Al Saud non si esprime.

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