Un consiglio di amministrazione vicino agli interessi degli azionisti (shareholder friendly) si è rivelato uno svantaggio per le grandi banche internazionali nel corso della crisi del credito che si è protratta da metà 2007 alla fine del 2008. Questa è la conclusione più sorprendente di The Credit Crisis around the Globe: Why Did Some Banks Perform Better?, un saggio di Andrea Beltratti (Dipartimento di Finanza della Bocconi, nonché presidente del consiglio di gestione di Intesa) e René Stultz (Ohio State University) pubblicato sul Journal of Finance Economics.
Nell’articolo i due professori studiano le ragioni per cui alcune banche hanno avuto performance migliori di altre durante la crisi, testando le argomentazioni suggerite da accademici, giornalisti e politici, secondo cui “regolamentazione lasca, capitale insufficiente, eccessivo ricorso ai finanziamenti di breve termine e cattiva governance hanno reso ancora più grave la crisi”. Gli autori finiscono per confermare il ruolo negativo dell’insufficienza di capitale e del finanziamento di breve termine, ridimensionano gli effetti della regolamentazione e confutano le idee prevalenti sulla governance.
In un campione di 164 banche di 32 Paesi con attività totali superiori ai 50 milioni di dollari a dicembre 2006, Beltratti e Stultz evidenziano una forte differenza tra la performance (misurata come ritorno medio per chi avesse comprato e tenuto in portafogio le azioni degli istituti) nel 2006 (32,37%) e nei sei trimestri di crisi, luglio 2007-dicembre 2008 (-51,84%), e osservano una notevole deviazione standard nel periodo della crisi (27,74%, con una gamma di ritorni che va dal -99,5% al 29.14%). Dividono poi le performance in quartili, confrontano le caratteristiche delle banche che hanno avuto i peggiori e i migliori risultati e conducono regressioni multiple per individuare le determinanti delle performance.
La crisi, sottolineano, ha in un certo modo invertito l’ordine delle performance. Le banche dell’ultimo quartile (ritorno medio durante la crisi -85,23%) avevano avuto, nel 2006, risultati migliori (38.71%) delle banche del primo quartile (che registrano un ritorno medio del -15,15% durante la crisi, ma un relativamente limitato 25,96% nel 2006). “Le banche con le migliori performance sono banche più tradizionali”, scrivono gli autori, con “una quota di equity significativamente maggiore e, dunque, una leva inferiore alla fine del 2006”. Hanno un più alto rapporto di depositi, non soggetti a fughe quando assicurati, sulle attività, e sono meno diversificate delle altre, provenendo spesso da paesi con una più stretta regolamentazione.
La diversificazione delle attività potrebbe spiegare anche il risultato più controintuitivo del paper. Beltratti e Stultz notano che l’unica dimensione della governance con un effetto significativo sulla performance delle banche durante la crisi è la vicinanza dei consigli d’amministrazione agli azionisti, misurata da un indice costruito con i dati di Institutional Shareholder Services su caratteristiche del consiglio quali l’indipendenza, la composizione dei comitati, le dimensioni e la trasparenza; e tale effetto è negativo.
Mentre la visione prevalente vuole che le banche con consigli d’amministrazione vicini agli interessi degli azionisti siano meno rischiose delle altre, l’evidenza dimostra che ciò non era vero neppure prima della crisi e che la loro performance durante la crisi è stata significativamente peggiore della performance delle altre banche. “Queste evidenze”, concludono gli autori, “sono coerenti con la visione secondo cui le banche che sono cresciute di più in settori che hanno finito per avere cattivi risultati durante la crisi stavano implementando, prima della crisi, politiche gradite agli azionisti”. Gli azionisti, in altre parole, erano soddisfatti degli alti ritorni di attività diversificate e rischiose, fino a quando queste hanno causato perdite inaspettatamente rilevanti durante la crisi.