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Ecco perché Maroni ha vinto in Lombardia nonostante l’appoggio di Formigoni

Grazie all’autorizzazione dell’editore e dell’autore, pubblichiamo una sintesi dell’articolo di Goffredo Pistelli apparso sul numero odierno del quotidiano Italia Oggi diretto da Pierluigi Magnaschi.

«Game over» dicevano i vecchi flipper quando la partita era finita e la bilia d’acciaio finiva in buca. A metà del pomeriggio di ieri, il match di Umberto «Beto» Ambrosoli, dopo aver fatto girare tante volte il segnapunti, e vinto molte palline oltre a quelle canoniche, è finito.

Ha vinto la faccia pulita della Lega, quella di Bobo Maroni, e il redivivo Popolo della libertà, dopato dall’entusiasmo del Cavaliere. Quarantadue per cento a 37, il risultato. La Lombardia, che per l’ennesima volta ha dimostrato di essere lontanissima da Milano, un altro mondo, come si esce dalle tangenziali, non s’è fidata della sinistra. Di nuovo. Per anni, per tradizione culturale e religiosa, intrise in una forma mentale e in un tipo umano, questo pezzo d’Italia, da sempre il più produttivo, ha detto di no alle sue sirene. Lo ha fatto negli anni della Dc, ma anche di liberali e repubblicani forti nella borghesia imprenditoriale, quando a sinistra c’era un Pci infatuato dal socialismo reale; ha concesso qualcosa al Psi craxiano, fintanto che s’ammantato di modernità e a tenuto le mani a posto, ma non ha dato mai troppo credito alle evoluzioni post-comuniste, tanto che in 43 anni di Regione, il Pds è entrato al Pirellone ma solo in un governo di larghe intese nel pieno di Tangentopoli.

Vittoria strana quella di Lega e Pdl. A Palazzo Lombardia, sede della giunta, andrà infatti un Carroccio che ha dovuto abbassare fortemente la cresta, sia per gli scandali della gestione bossiana, con propaggini al Pirellone, sia perché il successo arride al Sole delle Alpi mentre il partito sprofonda nel vicino Veneto. Maroni, per conquistare i lombardi che votano centrodestra, per convincere buona parte dell’elettorato pidiellino, particolarmente quello cattolico, refrattario agli eccessi verbali leghisti e fortemente «italiano», ha ampiamente depadanizzato l’immagine. All’inizio della campagna il segretario lumbard ha varato una campagna dai toni rassicuranti, molto personalizzata, in cui il verde Carroccio s’è ridotto alla pochette o alla cravatta della sua foto e dove un tranquillizante blu ha fatto premio su tutto, come una pubblicità di una nota catena di elettrodomestici. Basta celodurismi, basta ampolle, basta mistica celtica, ma solo il miraggio di un gettito fiscale che torni per i tre quarti indietro, dove è stato pagato, e l’idea di una macroregione del Nord che conceda a quei territori, a quelle imprese, a quella società civile, maggiori gradi di autonomia che nel passato.

Non una rivoluzione, non la secessione folcloristica delle catene umane lungo il Po, ma una cosa che potrebbe stare nelle pieghe stesse del nostro ordinamento. Una Lega che ha scoperto, con 20 anni di ritardo, i Cristiano sociali uniti che stanno poco più a Nord, in Baviera giusto al di là della Svizzera. Il dubbio forte, enorme a questo punto, è come la Lombardia possa diventare trampolino di lancio per questo nuovo corso, mentre sul lato orientale, il fianco che doveva essere più forte, crolla di colpo, sotto le seduzioni antipolitiche dei grillini e si incarta nelle lotte fra nuovisti maronian-tosiani, l’establishment di Luca Zaia e, ancora, la vecchia guardia bossiana. Maroni dovrà ricostruire, ripensare il partito, probabilmente abbracciando il modello Verona, quello di Flavio Tosi, di liste civiche e moderate «per andare oltre la Lega», userà la grande visibilità del governatorato, il ruolo prestigioso della Lombardia per farlo. Non potrà, a differenza del passato, usare i toni forti, al limite dello scontro e forse oltre, che nel passato il Carroccio s’è potuto permettere con lo stesso Roberto Formigoni: adesso i rapporti di forza sono enormemente cambiati. Maroni dovrà essere il governatore della coalizione e non il capo leghista.



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