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E’ emergenza sullo spread (fiscale) a 1000

Grazie all’autorizzazione dell’editore e dell’autore, pubblichiamo il commento di Edoardo Narduzzi apparso sul numero odierno del quotidiano Italia Oggi diretto da Pierluigi Magnaschi.

I risultati dell’incapacità riformista della classe dirigente italica, che ha scelto l’euro ma non ha saputo trasformare il Paese, sono già sotto gli occhi di tutti: l’Italia ha il più elevato rapporto nella moneta unica tra pressione fiscale e Pil pari al 45,3%. Ovvio: quando crei una dimensione economica originale, riformarsi per competere al meglio nel nuovo spazio è indispensabile altrimenti ti ritrovi, come l’Italia, incapace di tagliare la spesa corrente e con l’illusione di poter restare a galla portando le imposte nella stratosfera.

Lo spread fiscale, dati Ocse alla mano, che oggi paga la struttura produttiva italiana rispetto a quella tedesca si avvicina ai 1.000 punti base, cioè il 10% in più all’anno di pressione. Con in più l’aggravante che il credito bancario, dati Banca d’Italia alla mano, nel Belpaese si è rarefatto e che il costo del denaro è almeno del 2,5% più elevato di quello pagato a Berlino. Il risultato è la situazione di accelerata perdita di competitività, la fuga degli investitori e dei capitali esteri e l’avvitamento del ciclo recessivo.

La recessione in corso, di fatto, dall’ultimo trimestre del 2008 quasi senza soluzione di continuità, già penalizza le imprese italiane che pagano una atipica imposta patrimoniale, quale l’Irap è in recessione, con l’aggravante che perfino sugli utili reinvestiti in azienda, per attenuare il credit crunch e per sostenere gli investimenti, le imprese italiane scontano LadySpread in versione fiscale.

Fatto salvo il 3% di Ace, cioè di detassazione dell’incremento del patrimonio netto, gli utili che vanno a finanziare il capitale circolante o le nuove immobilizzazioni scontano in pieno la pressione fiscale sul Pil più elevata dell’eurozona, con il risultato che la moria di imprese, soprattutto di quelle piccole e medie, si accentua e il rinvio delle scelte di investimento diventa normalità. La recessione, così, si avvita e diventa una spirale ribassista a discapito soprattutto dell’occupazione e della competitività sistemica.

Un legislatore sensibile avrebbe dovuto totalmente defiscalizzare gli utili reinvestiti in azienda per concentrarsi a tassare in maniera ordinaria i soli dividendi. In questo modo avrebbe offerto credito e finanza alla necessità di investire delle imprese, schiacciate da una pressione fiscale che sarebbe insostenibile perfino per gli ordinati e disciplinati tedeschi.


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