Dimenticare la Seconda guerra mondiale. E tutto quello che la sconfitta militare del 1945 ha introdotto nella cultura istituzionale del Giappone. Il premier nipponico non dimentica le promessa fatte in campagna elettorale e ora cerca di concretizzare la più controversa: la modifica dell’articolo 9 della Costituzione. Un passo che potrebbe vedere il disaccordo dell’alleato americano. Il paragrafo, scritto sotto forte impulso Usa, vieta per sempre al popolo giapponese “la guerra”. Questo il motivo per cui all’Impero del Sol levante è vietato avere forze armate. Nascosto sotto il nome di “forze armate di autodifesa”, Tokio un esercito però lo possiede comunque. Una ipocrisia di cui i politici del partito liberal-democratico al potere non vedono l’ora di sbarazzarsi.
Anche il governo sconfitto lo scorso dicembre portava avanti la normalizzazione militare. Lo faceva però approfondendo la collaborazione con gli Usa. Fino all’esecutivo Noda, Washington e Tokio condividevano la stessa analisi della situazione asiatica. Individuazione delle minacce e risposte da dare ai cambiamenti regionali erano parte di un gioco di squadra tra alleati. Non che ora la situazione si sia capovolta. Il Giappone è sempre entusiasta del “ritorno” americano in Asia. Qualche sfumatura nuova però esiste. Cosi Shinzo Abe ha rotto con la tradizione che vuole il capo del governo nipponico effettuare la prima visita all’estero negli Stati Uniti. Il 16 e 19 gennaio il posto di Washington lo hanno preso Vietnam, Thailandia e Indonesia. Paesi indubbiamente fondamentali a contrastare l’influenza cinese nella regione. Un obiettivo approvato anche dalla Casa Bianca. Non altrettanto serenamente potrebbe reagire però Washington alla revisione di un dettato giuridico ritenuto dagli ambienti nazionalisti giapponesi la “camicia di forza” imposta dagli occidentali alla cultura nipponica alla fine del secondo conflitto mondiale.
Un atteggiamento comprensibile solo tenendo presente che l’illuminismo europeo, l’idea stessa di diritto naturale, non hanno mai fatto breccia nella tradizione del Sol Levante. Il diritto, secondo ragionamenti approvati anche dall’attuale partito di maggioranza relativa nipponico, entra a far parte di una collettività solo dopo essere stato concesso dall’autorità. Da qui la pretesa di avere una Costituzione in linea con storia e cultura della nazione. Un radicalismo giuridico accompagnato però da un linguaggio sostanzialmente moderato. Nessuno infatti a finora mai affermato di puntare alla “giapponizzazione” della carta fondamentale di Tokio. Cautela comprensibile, visto che una strategia di questo tipo rappresenterebbe una sfida all’egemonia statunitense. Ciò non toglie che per chi critica l’attuale Costituzione nipponica, l’emendamento all’articolo 9 sia il primo passo verso una concezione del diritto e dei diritti umani in grado di distinguersi da quella occidentale.
Il progetto di Abe si scontra però con un ostacolo di rilievo. Secondo l’articolo 96, la carta fondamentale del Giappone è modificabile solo a maggioranza qualificata. Numeri che i liberal-democratici posseggono solo alla Camera bassa. Nell’altro ramo del Parlamento di Tokio il partito di maggioranza non raggiunge invece i due terzi dei voti. Da qui l’obbligo di modificare anche l’articolo 96. Ovviamente anche in questo caso con la maggioranza dei due terzi.
Nel 2006 un tentativo identico di Abe è fallito. In attesa di vedere come andrà a finire ora il premier un successo lo ha già raggiunto. Martedì per la prima volta dopo undici anni, il legislatore ha aumentato il bilancio militare. Nell’anno finanziario 2013-14 il Giappone spenderà per la propria “autodifesa” 38,7 miliardi di euro. Un passo che forse rende contenti gli Usa. Difficile però credere che Cina e Corea del Sud faranno salti di gioia.