Lo scorso 18 gennaio, l’economista Michele Boldrin pubblica sulla rivista online “Noise from Amerika” l’articolo: “L’economia sociale di mercato: commenti”. In realtà, come riconosce lo stesso autore, si tratta di un articolo già pubblicato sul numero di novembre del 2008 de “L’imprenditore”. La tesi di Boldrin è chiara ed è espressa in modo diretto: “la contrapposizione teorica fra ESdM e liberalismo ‘classico’ o è spuria e retorica, nel senso che voler contrapporre una ‘teoria’ all’altra sulla base dell’idea, falsa, che una vuole un mercato regolato mentre l’altra lo vorrebbe sregolato, è esercizio pernicioso che nasconde altre intenzioni”. Le “altre intenzioni” sarebbero altrettanto evidenti: “la classe politica desidera utilizzare la foglia di fico offerta dalla “S” in ESdM per accaparrare maggior potere per sé e per quei gruppi economico-sociali che le sono maggiormente vicini a discapito – come potrebbe essere altrimenti? – del resto dei cittadini”.
Come non negare che i tentativi di implementazione italiana dell’economia sociale di mercato scontino una simile deviata interpretazione? Tuttavia, non ritengo che l’aggettivo sociale sia da intendere necessariamente come un espediente retorico. Purtroppo Boldrin, come molti, accetta l’idea che “l’economia sociale di mercato” non possa che tradursi nella variante perversa e statalista rappresentata dall’espressione: “economia di mercato sociale”; l’economia mista e statalista che abbiamo conosciuto in Italia.
A tal proposito, conviene ricordare le origini dell’espressione “economia sociale di mercato” e quali furono sin dall’inizio alcune rilevanti controversie sorte intorno alla medesima. Circa le origini restano ancora molti dubbi. Da un lato è fuori discussione che Alfred Müller-Armack la utilizzò per la prima volta in una sua pubblicazione. D’altro canto, si registrano alcune tracce di questo termine nel 1947 da parte di Harold Rasch, che dal 1947 al 1948 ha presieduto l’amministrazione economica di Minden; è generalmente condiviso il fatto che Rasch utilizzò tale termine indipendentemente da Müller-Armack.
Ludwig Erhard, ma prima di lui Walter Eucken, il padre del cosiddetto “liberalismo delle regole” (ordnung liberalismus), coltivava la convinzione che un contributo essenziale al “progresso sociale” potesse giungere da mercati aperti e strutturati sul modello della libera concorrenza e perciò in crescita dinamica. La “questione sociale” trova la sua prima e decisiva risposta nell’ordine della concorrenza – quindi non contro o per il mercato, ma con il mercato. Anche sotto il profilo terminologico, non sono mancati coloro che hanno denunciato una certa incongruenza data la concomitanza dei termini “mercato” e “sociale”. Costoro denunciano, di fatto, la sostanziale incongruenza di finalità “sociali” e di “mercato”. Si tratta di una nota polemica che vide di fronte gli ordoliberali e l’area più libertaria della Scuola Austriaca dell’economia: il filone anche detto “Austrians” che si sviluppò negli Stati Uniti nel secondo dopoguerra in seguito al soggiorno newyorkese di Ludwig von Mises.
A differenza dei sostenitori dell’economia mista e dell’economia di “mercato sociale”, “l’economia sociale di mercato” scommette sulla capacità dei processi di libero mercato di perseguire finalità di interesse sociale, non contrapponendo affatto, di conseguenza, i concetti di “sociale” e di “mercato” e infine non identifica “sociale” con “statale”; il “sociale” riguarda in primo luogo l’ambito della società civile, articolata secondo il principio di sussidiarietà orizzontale, oltre che verticale. La politica sociale non è quindi né un’attività di correzione (da parte dello Stato) né una semplice appendice dell’economia di mercato (la filantropia privata) – nell’uno e nell’altro caso, in effetti, avrebbe senso parlare di “economia di mercato sociale”, dove l’aggettivo qualificativo (sociale = “Stato”) avrebbe la funzione di addolcire le asprezze del sostantivo (mercato = “privato”). Al contrario, la politica sociale è una parte costitutiva equipollente e integrale del concetto di “economia sociale di mercato”. Non si tratta di puntuali interventi nel mercato “su base sociale”, quanto soprattutto dell’accesso senza privilegi al mercato – proprio allora si può attendere dalla “libera iniziativa” anche il “progresso sociale”.
In questo quadro, allora, il principio della “conformità al mercato” offre un orientamento teorico. Müller-Armack, Alexander Rüstov e Wilhelm Röpke metteranno a punto questa idea di fondo dell’economia sociale di mercato: provvedimenti politici di carattere gestionale debbono “garantire gli scopi sociali senza intervenire negli apparati del mercato creando perturbazioni”. Per tutti i rappresentanti della tradizione di Friburgo, un efficiente sistema di prezzi è l’elemento centrale degli “apparati del mercato”. I prezzi informano su scarsità e preferenze modificate; essi controllano il potere degli attori e dirigono risorse scarse verso utilizzi più efficienti. Provvedimenti di politica economica che tentino di dare attuazione ai loro obiettivi manipolando il meccanismo dei prezzi finiscono per annullare la funzione sociale del mercato e portano pertanto alla concentrazione di potere.
A questo punto, pur concordando con buona parte delle idee di Boldrin, non mi sembra retorico, scontato e banale porre l’accento sulla dimensione “sociale”, se per sociale intendiamo l’assetto istituzionale ovvero la qualità delle istituzioni sulle quali poggiano i processi di mercato e, soprattutto, se ci riferiamo alle idee e alla cultura che favoriscono i processi di mercato, quelle capaci di offre i fattori extra contrattuali – basti considerare la smithiana sympathy – senza i quali i mercati stessi non esisterebbero o non è detto che favorirebbero meccanicamente l’emancipazione delle persone e il progresso sociale che ne consegue.
Allora, mettere l’accento su “sociale”, con riferimento all’economia, nella prospettiva teorica del padri dell’economia sociale di mercato, significa affermare che il mercato è un continuo processo di scoperta ed ancora che il mercato nudo e crudo semplicemente non esiste, dal momento che esso è le sue istituzioni e queste ultime sono come le fortezze: “resistono se sono forti le guarnigioni”. In definitiva, significa non accettare una rappresentazione disincarnata, impersonale, statica e asettica dei processi economici, ma vuol dire comprendere quanto essi siano interconnessi con il diritto, con la storia e con la cultura di un popolo. Per questa ragione, i fautori dell’economia sociale di mercato ritengono siano necessari una continua azione riformatrice sul versante istituzionale, da parte degli attori civili (politici, economici e culturali) ed un insieme di policy orientate al mercato libero e aperto a tutti, affinché esso sia realmente un processo regolato dalla competizione e non un luogo dove prevalgono gli interessi corporativi mediati dalla politica, con buona pace del laissez faire e delle migliori intenzioni dei suoi fautori.