Un filo giallo, un filo rosso e un filo nero. Snodandoli e riannodandoli attorno alla millenaria araldica vaticana potremmo forse trovare il colore più vero della bandiera della Santa Sede. A maggior ragione dopo un evento sconvolgente e inaudito come le dimissioni del Pontefice.
Filo giallo: mille casi tra cronaca e storia che da Papa Borgia a monsignor Marcinkus hanno segnato le vicende politico-finanziarie italiane, su uno sfondo di intrighi di corte e delibere di consigli di amministrazione, tesori nascosti, fughe repentine verso Castel Sant’Angelo o in paradisi fiscali semitropicali, complesse manovre internazionali, “banchieri di Dio” e sicari, giannizzeri e fondi neri, fruscii di tonache, incontri segreti.
Filo rosso: la teologia che si fa storia, che, carne della carne del pensiero, entra in rapporto di sviluppo critico con la modernità. È la tradizione filosofica occidentale che si fa storia dell’animo umano, e che, stando in contatto con le sue contraddizioni feconde, consente di interpretare la storia dell’umanità tutta. È l’universalismo che continuamente rompe il guscio del relativismo – e relativizza così l’assolutizzarsi dell’Occidente, e in particolare della sua espressione individualistica e capitalistica.
Filo nero: è come il sottofondo a tutto il resto, che vi si intreccia e rende la questione del mutamento nella Chiesa una questione politica, soggetta alle oscillazioni del ciclo politico-sociale: comunità di base, Chiesa del dissenso, dibattiti postconciliari e relativa divisione per fazioni ermeneutiche, quel “mordersi e divorarsi a vicenda” che San Paolo e lo stesso papa Benedetto XVI hanno sottolineato, e che oggi si gioca sullo sfondo di un processo di secolarizzazione che rimette in circolo l’anticlericalismo, reso ancora più viscerale dai terribili casi di abusi sessuali e di pedofilia emersi negli ultimi anni.
Contro questi fattori di scandalo Benedetto XVI è stato forte e deciso come non mai.
Sotto di lui, la comunicazione cattolica è migliorata, si è resa più aperta alla tecnologia, interpretandone tutta la carica empatica, senza cedere sui contenuti. La grazia al maggiordomo Paolo Gabriele è stata un evento, ed un messaggio, pienamente sul filo di questa “mission”. Un atteggiamento inutilmente vessatorio sarebbe stato il segno di un cedimento non ad una fazione interna, ma ad un sottile messaggio anticristiano postmoderno.
La Chiesa resta, dunque, punto di riferimento nella crisi morale che si percepisce anche nelle mille piccole intolleranze che dividono il nostro Paese. Questo messaggio supera l’evento recente e traumatico, ma in un certo senso non inatteso, delle dimissioni del papa tedesco. Il tentativo, quasi immediato, di interpretarlo come ferita mortale per la cristianità intera rientra nella migliore tradizione – tutta interna alle abitudini (e ai tic) postrisorgimentali – dell’attacco al Vaticano.
Del resto che cos’è l’Anno della Fede proclamato da Benedetto XVI per rievangelizzare il mondo che ha dimenticato Cristo? È la risposta più forte, complessa e articolata – certamente, in questo senso, titanica per l’impegno che richiede – per far rivivere il senso della comunità cristiana, stravolta da una predicazione che un tempo aveva altissimi referenti, ed oggi è diventata spiccia polemica, agitata per fini di bottega politica. È quella scissione tra Chiesa “istituzione” e Chiesa “spirituale” che secoli di conflitti sembrano finalmente aver risolto, ma non per i polemisti di professione. In controcanto ad ogni vicenda di cronaca della microstoria vaticana (filo giallo), vi è quasi sempre questo abbaglio, questa grande illusione di alcuni di poter sovvertire e opporre l’una all’altra, utilizzando spesso ottime basi teologiche (filo rosso). Ma di fronte al fallimento del tentativo, sistematico ecco riemergere risentimento e frustrazione (filo nero). Anche perché quelle basi filosofiche per l’attacco al Vaticano sono state molto ridimensionate dal magistero di Benedetto XVI, grande teologo che solo per pura pigrizia intellettuale viene rubricato come “conservatore”, capace invece di confrontarsi con le inquietudini metafisiche del nostro tempo, con le tradizioni filosofiche laiche e con il nichilismo dell’età della tecnica.
Gli attacchi al Vaticano non hanno più l’intensità raggiunta all’acme nel 2010, ed è proprio per questo che oggi Benedetto XVI può dimettersi. Sono passate le bufere, in gran parte mediatiche, di quella fase. Joseph Ratzinger può dimettersi anche perché ha avviato, con l’Anno della Fede, una rifondazione che apre le porte a un nuovo protagonismo degli ordini, dei missionari, del laicato, dei semplici parroci cresciuti a contatto con l’onda lunga della più grave crisi spirituale dai tempi della Riforma. Forze ben temprate che difficilmente si faranno guidare da polemiche mediatiche esterne nella valutazione del magistero di Benedetto XVI. Come dire: chi tenterà di ri-ingarbugliare quei fili che si sono dipanati negli ultimi anni, troverà più ostacoli di quanto forse si aspetti.