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Non c’è tregua per Israele, dice Netanhyau

Per noi osservatori europei, relativamente lontani dal teatro (ma noi italiani siamo meno giustificati di altri!), non è facile capire l’evoluzione degli ultimi tre mesi nel Vicino oriente. Fino a novembre sembrava che una soluzione turco-saudita, con la benevola neutralità americana, avrebbe determinato il regime change e la fine delle ostilità e dei massacri. A ridosso delle elezioni presidenziali che hanno riconfermato Obama gli analisti americani hanno cominciato ad interrogarsi, spinti a miglior consiglio dall’emergere di una minaccia nordafricana e sub-sahariana che potrebbe aggravarsi se gli islamisti siriani (molti dei quali provenienti dalla Libia) “finissero il lavoro” a Damasco e ritornassero disponibili sul “mercato della jihad internazionale”: con ogni probabilità, punterebbero al Sahel e all’Algeria, dove Washington ha interessi strategici di lungo periodo che condivide con Parigi (e anche con Roma, che pure, attraversata da mille vicende interne, sembra giocare un ruolo secondario). Non è un caso che la Francia abbia puntato su questo teatro, piuttosto che su quello siro-libanese dove pure fino a qualche tempo fa esprimeva posizioni estremamente aggressive, che facevano intendere la disponibilità a dare la spallata ad Assad. Al centro di queste migrazioni della jihad errante c’è Israele, che secondo Netanhyau, deve oggi far fronte a sfide senza precedenti, “senza un attimo di tregua” da parte di Siria, Iran ed Hezbollah. Qual’è la visione israeliana della situazione mediorientale, che appare “sospesa” e insoluta quanto mai? Ne parliamo con Ely Karmon, esperto geopolitico ed analista strategico del controterrorismo al Centro interdisciplinare (Idc) di Herzlyia, che ha partecipato lo scorso 24 gennaio al Seminario “Il Triangolo della tensione: Iran-Israele-Stati Uniti” promosso dalla Link Campus University, dal Centro studi Gino Germani e da Formiche

Dottor Karmon, come è cambiata (se è cambiata) la percezione della sicurezza in Israele dopo le elezioni di gennaio?

Le elezioni in Israele dello scorso gennaio hanno consegnato nuovi equilibri politici che sono però in forte continuità, dal punto di vista della sicurezza, con il passato. Iran, Egitto, Palestina e Siria continuano a dominare le menti degli israeliani come fonti di instabilità e di minaccia diretta all’esistenza dello Stato. Il programma nucleare di Teheran resta il primo e più importante fattore di tensione che ritengo prioritario, mentre a livello elettorale l’avanzata del centro può segnalare una pressione su Nethanyau perché si tenti, quantomeno, un accordo con Abu Mazen allo scopo di ridurre l’instabilità del campo palestinese.

Preoccupa dunque la lotta tra frazioni palestinesi?
Sì, perché essa è stata la causa dell’intervento armato a Gaza dello scorso novembre (operazione “Pillar of defense”), che nacque come risposta ad attacchi missilistici che per la prima volta colpivano l’area di Tel Aviv, mettendo a rischio la vita di un milione di persone.

Qual’era l’obiettivo di Hamas?
Hamas voleva in questo modo spingere il governo della Fratellanza musulmana in Egitto ad aprire i varchi di Gaza, confermando nei fattti la sua retorica filo-palestinese.

Ma chi ha lanciato i missili su Tel-Aviv?
Non certo Hamas, che da questo punto di vista ha subito l’escalation, ma sicuramente “Jihad islamico-palestinese”, un gruppo vicino a Teheran dal punto di vista ideologico, con l’obiettivo probabile di scatenare un conflitto tra Egitto ed Israele.

Come valuta il comportamento egiziano in quell’occasione?
Per fortuna il presidente egiziano Morsi ha scelto in quell’occasione la via della moderazione, anche per mostrarsi degno degli aiuti economici americani e internazionali di cui ha assoluta necessità. Non era una scelta scontata – si pensi alle dichiarazioni jihadiste del capo spirituale della Fratellanza musulmana – e non è detto che sia definitiva. Anzi, non è improbabile che l’ideologia coranica che domina la Fratellanza e le sue scelte strategiche potrebbero alla fine prevalere sulle considerazioni razionali, e spingere lo stesso Morsi a buttare all’aria l’accordo di pace con l’Egitto. In definitiva, è questo l’obiettivo che si ponevano le frazioni terroristico-missilistiche ed è questo che è stato scongiurato, almeno nel breve periodo, con l’operazione “Pillar of defense”. Siamo dunque entrati in una fase di tregua che può essere più o meno lunga, ma che certo potrebbe servire tanto ad Hamas per ricostruire il proprio arsenale, quanto agli stessi Egitto ed Israele per ridefinire le proprie strategie.

Quali sono i referenti regionali di Hamas?
Sul gruppo fondamentalista sciita padrone di Gaza ci sono pressioni non solo da sud, ma anche da nord. Pressioni impreviste fino a qualche anno fa, e che io definirei “neo-ottomane”. È la Turchia, il suo primo ministro Erdogan e il gruppo dirigente del partito Akp – saldamente al potere a partire dalle elezioni del 2007 – che si è assunta la veste di protettrice dei movimenti islamisti, in particolare in Palestina, ma anche in Siria, proprio secondo le linee di penetrazione territoriale dell’antico impero ottomano. Nel caso palestinese, Ankara cerca di sedurre Hamas ed utilizzarla contro Israele: per questo rifiuta i risarcimenti che Gerusalemme sarebbe pronta ad offrire per l’incidente della “Marmara” (la nave che nel maggio 2010 cercò di penetrare la striscia di Gaza, e che fu abbordata da un commando israeliano in un’azione che provocò 9 morti) e chiede l’apertura completa della Striscia, che vorrebbe dire rafforzare ulteriormente Hamas provocando la semi-indipendenza di Gaza da Ramallah, sede dell’Autorità nazionale palestinese.

La Turchia punta ancora alla Siria?
In Siria il gioco turco è più sottile: Ankara ha abbandonato quello che era un vecchio alleato, non appena si è convinta che stesse per cadere. Così ha cercato di utilizzare la Fratellanza musulmana siriana come strumento della sua influenza in un futuro Stato-cliente. Ma le rivoluzioni e le guerre sono cose complesse, e così la disgregazione etnico-religiosa ai confini meridionali rischia di tracimare in Turchia, dove i curdi guardano all’esempio dei loro connazionali in Siria, che vanno verso l’autonomia. Non solo, in Anatolia ci sono minoranze sciite come gli Alevi e gli stessi Alawiti (la setta sciita che esprime il regime di Bashar-Al-Assad) che si oppongono all’intervento turco. Se anche, come molti analisti sostengono, il regime baathista dovesse crollare a Damasco, sarebbe comunque in grado di ritirarsi con forze fedeli in un cantone alawita, una sorta di Bosnia o Kosovo siriano, e da qui offrirebbe un precedente per le minoranze sciite oltre confine.

Quali sono le dimensioni del confronto turco-israeliano?
Non è solo l’ideologia neo-ottomana che spinge la Turchia a manovrare contro Israele, ma interessi molto specifici ed economici, come quelli legati allo sfruttamento dei giacimenti di gas recentemente scoperti nell’area. Alle pressioni e rivendicazioni turche, che sono giunte all’aperta minaccia nei confronti di Cipro, Israele ha finora risposto stringendo forti legami non solo con l’isola ma anche con la Grecia. Tuttavia per lo Stato ebraico è più difficile resistere ad altri tipi di pressione, quali quelle che Ankara esercita all’interno della Nato, per impedire che i rapporti tra Gerusalemme e l’Alleanza atlantica siano più forti di oggi. Pur non puntando ad una membership piena, Israele infatti da diversi anni coltiva stretti legami operativi con la Nato, ma per esempio non ha potuto prendere parte al fondamentale Summit di Chicago dell’anno scorso proprio per il veto turco.

In tutto questo, la minaccia iraniana sembra quasi passare in secondo ordine. È un’impressione giusta?
No, anzi è evidente che la principale minaccia esistenziale per Israele viene dall’Iran. Su questo versante, inaspettatamente, Gerusalemme si ritrova alleata di Ankara nel contrastare la prospettiva della nuclearizzazione iraniana. Sia la Turchia che a maggior ragione Israele si trovano infatti già nel raggio d’azione dei missili Shahab-3 con una gittata di 2mila km. Lo sviluppo di armi con questa gittata, e di missili a lungo raggio con tecnologia nordcoreana si spiega solo con l’intenzione di dotarsi di un deterrente nucleare, che potrebbe essere usato a scopi offensivi.

Sempre più, almeno in Europa, si parla di “fronte nordafricano” della lotta al terrorismo. Qual’è la valutazione dei vertici israeliani?
Schiacciata com’è nella triplice tenaglia turco-iraniano-egiziana, Israele non può che vedere come piuttosto marginale, almeno dal punto di vista strategico (non, forse, economico) il conflitto nel Sahel. Pur riconoscendo l’importanza dell’intervento francese in Mali, Israele è più preoccupata, e non da oggi, degli equilibri in Africa orientale e in particolare del Sudan, che è considerata dagli analisti antiterrorismo come una piattaforma usata da gruppi jihadisti per infiltrarsi in Sinai.

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