Con l’arrivo del segretario di Stato statunitense John Kerry alla prima missione europea e mediorientale nel suo nuovo ruolo, la politica estera, da tempo grande assente, torna protagonista a Roma, proprio quando l’incertezza e la confusione nella politica interna sono al loro acme.
Anche per questo, la tappa romana di Kerry è significativa, più che per gli incontri bilaterali, per gli appuntamenti multilaterali: mercoledì 27 sera, la cena transatlantica, dove si parlerà di sicurezza e zona di libero scambio tra Stati Uniti e Unione europea e, giovedì 28, il Gruppo di alto livello sulla Siria, dove si discuterà di come uscire dalla guerra civile che devasta quel Paese.
Se la tappa italiana della missione Kerry non si colloca in giorni politicamente felici, l’attenzione degli Stati Uniti per l’Italia è stata dimostrata, all’inizio del mese, dalla considerazione riservata alla visita a Washington del presidente Giorgio Napolitano. “Non è fatto scontato che in futuro tale attenzione sia riservata a chiunque altro”, scriveva sul Corriere della Sera Maurizio Caprara. Un’affermazione che, dopo il voto, appare una premonizione.
Tra il 24 febbraio e il 6 marzo, Kerry fa tappa in nove Paesi: oltre all’Italia, Gran Bretagna, Francia Germania, Turchia, Egitto, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Qatar. Una maratona che ha l’obiettivo di rinnovare i legami transatlantici e di affrontare dossier scottanti, come appunto la Siria e l’Iran e anche il Mali e la Corea del Nord. In seguito a fine marzo, il neo-successore di Hillary Clinton accompagnerà in Israele il presidente Barack Obama, mentre l’Asia sarà la meta di una successiva missione.
L’incontro con l’opposizione siriana
La vigilia della missione di Kerry era stata segnata da dichiarazioni dell’opposizione siriana, che minacciava di boicottare la riunione del Gruppo ad alto livello, per protesta contro l’inazione della comunità internazionale. La diplomazia di Washington s’è però messa al lavoro per fare recedere l’opposizione dai suoi propositi e per evitare, così, di mandare a monte, o almeno compromettere, la consultazione di Roma.
E i risultati del forcing diplomatico degli Stati Uniti si sono visti. Da Londra, Kerry ha telefonato al leader della coalizione dell’opposizione siriana, Moaz Alkhatib, incoraggiandolo a partecipare alla riunione del 28 e ottenendo, pare, un consenso. E, sempre a Londra, Kerry ha detto che il presidente siriano Bashar al-Assad ”deve andarsene” e ha ancora sottolineato l’importanza della partecipazione dell’opposizione siriana all’incontro romano: “Non andiamo a Roma solo per parlare, ma per prendere decisioni” sulla crisi siriana, ha aggiunto Kerry, invitando esplicitamente l’opposizione a essere presente.
Quello che la portavoce del Dipartimento di Stato Victoria Nuland ha definito il ‘listening tour’, il ‘viaggio dell’ascolto’, di Kerry si muove lungo un itinerario geograficamente razionale, ma pure diplomaticamente significativo. Infatti, l’esordio a Londra suona riconoscimento alla ‘relazione speciale’ tra Stati Uniti e Regno Unito, che è stata esplicitamente ribadita da Kerry e dal suo omologo britannico William Hague. Così come il fatto che Kerry visiti l’Europa prima dell’Asia è certo dettato da impegni già definiti – ad esempio, la riunione del Gruppo sulla Siria -, ma pare pure rispondere al desiderio di tranquillizzare gli europei sull’attenzione che gli Usa danno loro.
Anche se, prima di partire, Kerry ha detto che la maggiore sfida alla politica estera degli Stati Uniti non viene ora come ora né dalla Cina né dal Medio Oriente (e tanto meno dall’alleata Europa), ma dal Congresso, che sta creando uno stallo sul bilancio e sta così condizionando la programmazione delle attività diplomatiche Usa. In una battuta, il segretario di Stato rileva che “non si può essere forti nel mondo senza esserlo a casa propria”; e invita il Congresso a trovare un accordo per evitare i tagli automatici alla spesa che sono “senza senso” e costituiscono una minaccia.
Se Kerry avesse avuto qualche esitazione nel definire le priorità della sua agenda, l’escalation della violenza terroristica in Siria la scorsa settimana deve avergli tolto molti dubbi: la Siria è, in questo momento, il primo problema della sicurezza internazionale. Se la matrice di molti attentati resta incerta, uno degli effetti è di accrescere l’incertezza su chi stia davvero battendosi in Siria per rovesciare il regime di Assad. Al Cairo, la Coalizione nazionale siriana s’è detta pronta a negoziare un accordo di pace per porre termine al conflitto, purché il presidente non abbia un ruolo nella trattativa, da condurre sotto l’egida di Usa e Russia.
Ma, in Occidente, nelle ultime settimane, la sensazione che il regime stesse per crollare s’è smorzata e s’è così tornato a parlare di dialogo (“fra tutte le parti coinvolte” è il linguaggio diplomatico comune alla Russia e alla Santa Sede). Nella scia delle decisioni dell’Ue, che ha appena prolungato le sanzioni contro la Siria, il ministro degli esteri italiano Giulio Terzi intende proporre al Gruppo di aumentare gli aiuti militari ai ribelli, sotto forma di assistenza tecnica, addestramento e formazione.
Giampiero Gramaglia è consigliere per la comunicazione dell’Istituto Affari Internazionali