Lo scorso gennaio il Dipartimento dell’energia Usa (Doe) ha costituito il Critical materials institute (Cmi) con una dotazione iniziale di 120 milioni di dollari. L’Istituto dei materiali critici rappresenterà il centro di eccellenza nazionale nel campo delle terre rare. Questi minerali strategici, fondamentali per la produzione di turbine eoliche, veicoli elettrici, pannelli solari, ecc. rappresentano una sfida tecnologica e geopolitica, in particolare da quando la Cina ha avviato nei fatti la costituzione di un mercato regionale delle terre rare nel Pacifico occidentale. Una situazione chiaramente percepita dai vertici politici americani, cui si può far risalire anche il riavvicinamento militare tra Australia e Stati Uniti, con la costituzione di una base marines a Darwin nel 2012.
Ma quali sono questi materiali strategici che preoccupano il Dipartimento dell’energia? I loro nomi sono peculiari e per lo più sconosciuti al grande pubblico (disprosio, terbio, europio, neodimio, ittrio), eppure sono il “petrolio” del XXI secolo, perché necessari per applicazioni e prodotti impiegati nelle energie rinnovabili.
L’Istituto dei materiali critici costituirà un hub di innovazione energetica con il compito molto delicato di affrontare i problemi legati all’offerta globale di terre rare. Infatti i grandi gruppi statunitensi (tra gli sponsor dell’iniziativa i colossi GE e Molycorp) hanno interesse a individuare fonti alternative non solo in termini geografici, ma anche economici, per esempio migliorando il recupero dai rifiuti elettronici.
Tutto questo fa parte di un’iniziativa della Casa Bianca intitolata Materials genome initiative e lanciata nel 2011 (la Strategia sui materiali critici del Dipartimento dell’energia è del 2010) che sostiene anche la ricerca di materiali innovativi per la protezione individuale e di sostituti dell’alluminio e di altri metalli nelle automobili. Annotazione di non poco conto: il coinvolgimento della “rust belt” (la cintura della ruggine) da cui proviene Obama, con l’individuazione della sede nell’Ames Laboratory di Ames (Iowa) con la possibilità di unificare e fare leva sulle tecnologie Usa nel settore, è un segnale molto forte per quei centri industriali del Midwest in transizione dalla manifattura tradizionale dei materiali “bulk” (chimica organica, metallurgia, ecc) verso quella leggera, basata su piccole quantità con poche necessità di stoccaggio, logistica (ed importazione), o perfino additiva (3D printing), comunque adeguata a produzioni di estrema precisione.
Dopo lo “shale gas”, la ricerca sui nuovi materiali avanzati potrebbe ulteriormente rafforzare l’indipendenza energetica e produttiva degli Stati Uniti.