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L’umiltà (mediatica) di Benedetto XVI

Articolo tratto dal numero 54 (Dicembre 2010) della rivista Formiche

Uno degli aspetti che più colpisce in Benedetto XVI è l’umiltà e la capacità di pronunciare parole che arrivano dritte al cuore degli uomini e delle donne che l’ascoltano. Anche se si dice (e talvolta si esagera, caricando questa affermazione di un significato eccessivo) che Giovanni Paolo II parlasse più con i gesti, mentre il suo successore è il papa della “parola”, la realtà, a ben vedere, appare diversa. Infatti, non è soltanto assodato che papa Wojtyla sia stato un papa della “parola”, e della parola forte, scomoda, proclamata con tutta la forza di cui poteva disporre.

È altrettanto vero che Benedetto XVI sia un pontefice che prima ancora di parlare, colpisce per la sua umiltà e mitezza. Lo si è potuto riscontrare in occasione di viaggi internazionali presentati come difficilissimi, densi di insidie. Viaggi – come quello in Francia o il più recente in Inghilterra – durante i quali, invece, proprio questa attitudine del papa ha “sciolto” paure e tensioni della vigilia.

Purtroppo su Joseph Ratzinger, prima ancora che diventasse Benedetto XVI, grava un pregiudizio negativo, in termini tecnico-comunicativi un “frame”, che a partire dalla metà degli anni Ottanta lo ha dipinto come “panzerkardinal”, retrogrado, nostalgico del passato. Si è finito per contrapporlo a Giovanni Paolo II, del quale è invece stato fedelissimo e apprezzato collaboratore, al punto che papa Wojtyla fino all’ultimo si è rifiutato di accogliere le dimissioni di Ratzinger, ripetutamente presentate dal cardinale che più a lungo di qualsiasi altro capo dicastero della Curia romana ha affiancato il pontefice polacco. Questo pregiudizio negativo, costruito con campagne mediatiche dal dissenso ecclesiale, pesa purtroppo ancora oggi e impedisce, insieme ad altri elementi e fattori (tra i quali, non va dimenticato, una certa inadeguatezza, in talune occasioni, della macchina curiale) che l’autentico messaggio del papa venga trasmesso all’opinione pubblica. “All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva”.

Queste parole, che Benedetto XVI ha scritto nelle righe iniziali della sua prima enciclica, Deus caritas est, definiscono meglio di altre il cuore del messaggio di papa Ratzinger, il filo rosso del suo magistero. Joseph Ratzinger, ha scelto come chiave del suo pontificato – le più ricorrenti – parole quali “bellezza”, “amore”, “gioia”. È significativo che fin nel suo primo messaggio Urbi et orbi, l’omelia tenuta nella cappella Sistina la mattina del giorno dopo l’elezione, il nuovo vescovo di Roma abbia detto: “Nell’intraprendere il suo ministero, il nuovo papa sa che il suo compito è di far risplendere davanti agli uomini e alle donne di oggi la luce di Cristo: non la propria luce, ma quella di Cristo”. Queste parole preannunciavano lo stile del pontificato: papa Ratzinger non voleva essere protagonista, ma voleva fare emergere il vero protagonista. Un’indicazione importante, a questo riguardo, è avvenuta fin dai primi mesi del suo servizio pontificale. A partire dalla Giornata mondiale della gioventù di Colonia (2005), e poi via via in molte altre occasioni, Benedetto XVI ha voluto che il culmine di questi grandi eventi fosse sempre l’adorazione eucaristica, quando il centro della scena viene occupato non dal vicario, ma dal vero protagonista. Su questa stessa linea va inquadrato il magistero di Ratzinger sulla liturgia. Ben cosciente che i cambiamenti continui e calati dall’alto poco si addicono alla liturgia e soprattutto vengono difficilmente accolti e assimilati, Benedetto XVI ha scelto la via dell’esempio. Le messe papali si sono poco a poco trasformate: la croce ha ritrovato la sua centralità sull’altare, di fronte al celebrante, è stato dato più spazio al canto Gregoriano.

Nel 2007 il papa ha ridato piena cittadinanza al messale antico, in vigore fino al 1962. La volontà del papa, con questa scelta, non è affatto quella di tornare al passato o di cancellare le riforme conciliari. È invece quella di promuovere una riconciliazione e un arricchimento reciproco, per far sì che le celebrazioni del rito romano ordinario – che era, è e rimane quello scaturito dall’ultima riforma liturgica – possano riscoprire la bellezza e la sacralità di quelle antiche; e quelle nel rito romano straordinario – che ha cittadinanza accanto all’altro – possano scoprire la ricchezza del patrimonio di sacre Scritture che la riforma conciliare ha introdotto. Il papa si sta dunque spendendo per favorire la guarigione di antiche ferite e la riconciliazione: così va letta la sua decisione di revocare la scomunica ai vescovi lefebvriani, la Costituzione apostolica Anglicanorum coetibus, indirizzata alle comunità anglicane insofferenti che intendono tornare alla piena comunione con Roma e che potranno conservare le loro tradizioni. Decisiva, nella visione di Ratzinger, è l’immagine di una Chiesa che è “convocata” e che risponde a un mistero che non le appartiene. “La Chiesa – ha detto il papa – non è la Chiesa nostra, ma la sua Chiesa, la Chiesa di Dio. Il servo deve rendere conto di come ha gestito il bene che gli è stato affidato. Non leghiamo gli uomini a noi, non cerchiamo potere, prestigio, stima per noi stessi”. La Chiesa, inoltre, non consiste nelle sue strutture organizzative, non vive di convegni o commissioni. Come ha chiarito Ratzinger a Lisbona l’11 maggio 2010: “Spesso ci preoccupiamo affannosamente delle conseguenze sociali, culturali e politiche della fede, dando per scontato che questa fede ci sia, ciò che purtroppo è sempre meno realista. Si è messa una fiducia forse eccessiva nelle strutture e nei programmi ecclesiali, nella distribuzione di poteri e di funzioni; ma che cosa accadrà se il sale diventa insipido?”.

Un altro importante filo rosso che attraversa il magistero di Benedetto XVI è quello dedicato al rapporto fede-ragione, al centro della lectio di Regensburg. Il nucleo di quel messaggio, che sarà ripreso in vari altri interventi e documenti, è quello della sintesi tra fede e ragione come terreno per un dialogo autentico del mondo musulmano con il cristianesimo. Benedetto XVI ha spiegato che il dialogo non può essere innanzitutto una questione politica o di diplomazia, ma è la ricerca dei fondamenti razionali comuni a tutti gli uomini. Proprio parlando della ragione, il papa ha mostrato come la nostra epoca – a partire dall’Illuminismo, che pure ha i suoi meriti – sia caratterizzata da un concetto ristretto e limitato di ragione, una ragione che si “autolimita”, ritenendo di non poter dire nulla su Dio, sulle domande ultime che agitano il cuore dell’uomo, su ciò che la supera. Tutto questo, il senso religioso, l’epoca moderna non lo censura, ma lo relega nel limbo della soggettività, affermando che su questi temi non vi può essere una conoscenza ragionevole e oggettiva. Così la fede finisce per essere considerata qualcosa di irrazionale e di soggettivo.

Su questa riflessione s’innesta anche il richiamo, più volte fatto da Benedetto XVI, alla “morale naturale”, cioè a quella capacità che l’uomo ha di riconoscere il bene e il male. È un richiamo che vuole favorire un dialogo e un confronto vero tra credenti e non credenti, non soltanto sui temi di fede, ma anche su quelli legati alle emergenze etiche, per ricostruire una “grammatica” comune. Non vanno poi dimenticate altre importanti prospettive del pontificato, meno evidenziate perché contrastanti con il pregiudizio sul papa conservatore. Nell’enciclica sociale Caritas in veritate (2009), papa Ratzinger ha inserito nelle emergenze sociali anche la questione antropologica e le emergenze etiche, superando così – un altro passo di riconciliazione – la consolidata divisione che vorrebbe i cristiani “progressisti” dediti ai poveri e alle opere sociali, mentre quelli “conservatori”, impegnati nella difesa della vita e della famiglia. No, difesa della vita e della famiglia sono anch’esse questioni sociali. Va ricordata la vicinanza che il papa ha saputo manifestare ai poveri, agli ultimi, in questi primi cinque anni di pontificato.

Ma si deve pure ricordare che nel suo magistero si ritrovano parole forti contro il capitalismo selvaggio e la globalizzazione che finisce per impoverire chi è già povero: l’invito alla carità, alla fraternità, alla condivisione dei beni, a uno stile di vita più sobrio e più attento alle esigenze degli ultimi sono centrali nel suo insegnamento. Ratzinger ha anche spesso riflettuto sulla necessità di una più attenta gestione delle risorse del creato. Il richiamo all’ecologia umana, alla salvaguardia della natura che Dio ha affidato all’uomo, è infatti un’altra delle costanti di questo primo lustro di pontificato. Anche se a livello mediatico, l’esistenza del pregiudizio negativo, finisce per far passare soltanto quanto è assimilabile al cliché del papa conservatore.

Andrea Tornielli è giornalista e scrittore. Vaticanista de Il Giornale e autore del blog Sacri Palazzi



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