Ci vorrebbe un Aldo Moro: per uscire dallo sprofondo del partitismo politicamente incapace di ammettere e interpretare i propri macroscopici errori; per cercare di mettersi a rovistare fra le rovine economiche provocate da speculazioni finanziarie internazionali che gruppi di oligarchi hanno avuto in gestione per non farle degenerare in imposizioni a paesi sovrani; per tornare, tutti, a rendersi conto che la democrazia non è solo andare a votare a turni più o meno regolari, bensì un esercizio permanente di tolleranza, di rispetto, di confronto ideale e di dialogo propositivo. Ci vorrebbe non un alchimista che illuda che si possa trasformare il piombo in oro; e neppure un integralista che pretenda di comandare in virtù di pregiudizialismi ideologici che neppure il proprio seguito di vassalli condivide; e men che mai un populista col consenso dei più esposti miliardari che, convinto di avere davvero bloccato l’Italia con la sua intimazione di resa a tutta la casta politica che si riproduce dal 1945, attenda sulle rive di un ameno golfo che passino i cadaveri di quanti gli stanno antipatici.
Purtroppo, un Aldo Moro non c’è. E l’Italia – quella vera, variamente stratificata e impoverita a causa di sconsiderate teorie economiche impigrite nel concetto che una crisi si governa con rigorosa austerità non prevedendo che, in tal modo, non si pareggiano i conti ma si fa dilagare la recessione -, non ha bisogno di curatori fallimentari, bensì di risanatori economici e, soprattutto, politici.
Se un Moro, non c’è, non lo si può inventare, né estrarlo dal mazzo dei perdenti che pretendono di avere vinto: un po’ di realismo e di morigerazione dovrebbero per lo meno suggerire di tenersi da parte in una lunga pausa di riflessione. Insomma, è fatica sprecata sperare di rintracciare, fra gli ottimati, fra i tecnici fallimentari, una personalità con visione più ampia e realistica della condizione in cui sono sprofondati dopo il voto del 24/25 febbraio. Però un qualcuno che abbia una capacità d’analisi come l’Aldo Moro del 1976, che seppe leggere bene cosa aveva detto l’Italia bipolare sortita dal voto del 20 giugno, potrebbe anche emergere in quel variegato campo di partiti e di istituzioni che, bene o alquanto male, rappresenta pur sempre una maggioranza di popolo e ne esprime le pulsioni: le quali puntano, in primo luogo, ad una stabilità che fermi il dissesto economico e tenti di costruire una nuova rete di rapporti politici capaci di ripristinare un più ordinato sistema di libertà, di democrazia, di giustizia giusta, di sicurezza nazionale, di economia diversificata dal monetarismo.
Un punto è imprescindibile. Si è votato in una consultazione politica nella quale erano state presentate circa duecento simboli e solo candidati prescelti da responsabili d’apparati. Nessun partito ha seguito una regola diversa; e chi dovesse sostenere il contrario sarebbe un volgare mentitore. Alla vigilia del voto, la sinistra di Bersani e soci era universalmente data per sicura vincitrice della competizione, e con largo margine; Berlusconi era schernito come un vecchio e improponibile mentecatto che avrebbe dovuto ringraziare gli dei dell’empireo se fosse risultato quarto in graduatoria, insidiato com’era dall’arrembante Grillo (non proprio un giovinotto di primo pelo) e da un Monti e relativo coro di politici di lungo corso; Ingroia era nato come l’uomo di un nuovo giustizialismo, più duro di quello propostosi nel biennio 1992-1994; il resto era macedonia di frutta, che non impensieriva quasi nessuno, tanto più che la legge elettorale, fortemente mantenuta in vigore per volontà preponderante del partito di Bersani e Finocchiaro, non dava loro la benché minima chance.
A urne chiuse, il quadro che si è presentato è risultato totalmente diverso: primo partito è il movimento di Grillo, sortito da un voto di protesta non immotivata e avvertibile, presentatosi in maniera solitaria, separato da tutto il resto del campo dei partiti; Bersani è al secondo posto ma con un testa a testa col redivivo Berlusconi sia alla camera che al senato; Monti è stato ripescato all’ultimo minuto, appena oltre la soglia del 10 per cento; il partito dei giudici è stato giustiziato dagli elettori; medesima sorte hanno incontrato quei comunisti, postcomunisti, veteroambientalisti e opposizioni le più diverse che una improvvida par condicio ci ha mostrato più volte al giorno e su tutte le tv come fossero candidati ad un nuovo potere trainato dalla sinistra bersaniana.
Il contrasto radicale fra previsioni e risultati costituisce il motivo per il quale in tutto il mondo si parla di crack della politica italiana, di vincitori reali e di vincitori perdenti, di caos alla greca e di certezza di ingovernabilità in mancanza di stabilità. Mai come questa volta la stampa straniera ha colto – ma non era difficile – il senso di un voto diverso da quello atteso.
Di qui il mio modesto richiamo a un Moro che non esiste, ma il cui insegnamento (non richiamabile dalle lettere nel carcere brigatista, scritte in evidente costrizione fisica e mentale per tentare, com’era giusto, di salvare la propria vita, ma dissacravano tutto ciò che lo stesso statista pugliese aveva pensato e detto in precedenza, e in situazioni altrettanto abnormi), potrebbe suggerire metodi inediti di approccio al terremoto elettorale, volti a ricercare intese politiche possibili e costruttive.
Occorre un Moro intellettuale e, assieme, geniere (come fu nel 1976-1978), cioè un qualcuno che, preso atto di come l’Italia ha votato e non sfuggendo all’obbligo di ricostruire e non di demolire ciò che non piace, escluda in partenza un ritorno alle urne (che sarebbe un’offesa storica agli elettori del 24/25 febbraio); e, a mente fredda, con animo costruens e non destruens, ponga alla considerazione dei responsabili politici uno scatto d’orgoglio che li porti, in tempi relativamente brevi, a trovare una soluzione di governo corrispondente al rapporto di forze emerse nella consultazione: non ripiegando in soluzioni numeriche rabberciate e di comodo, ma riaffermando il concetto di priorità di una politica che si riappropri dei propri spazi, obbiettivamente vulnerati dal novembre 2011.
Moro non propose una grande coalizione fra i due principali partiti nel 1976, anche perché il secondo in graduatoria, il Pci, non sentiva una conventio ad escludendum come si continua a spettegolare anche in sede accademica, ma per la semplice ragione che i comunisti italiani (per loro specifica volontà e non solo perché così voleva anche il Cremlino) non se la sentivano di rovesciare posizione e fare un “inciucio”, come si dice oggi, col loro maggiore avversario. Moro suggerì il “governo delle astensioni” ad un Pci riluttante a non andare oltre quel massimo di disponibilità e che si accontentava della presidenza della camera per un proprio esponente, Ingrao, uomo di minoranza nel Pci, perché i quadri di partito e soprattutto il retroterra elettorale erano decisamente contrari a “sporcarsi” con la Dc. Dopo l’esperienza d’emergenza del governo monocolore Andreotti, il capolavoro di Moro fu di prendere atto dell’indisponibilità sia dei comunisti e dei partiti democratici intermedi quasi spariti dal parla¬mento, sia di una Dc condizionata dalla “maggioranza silenziosa” e da un movimentismo cattolico antipartito, e di passare con convinzione alla fase della “solidarietà nazionale” o di “unità nazionale”.
Allora la crisi economica era quasi uguale all’attuale; e, all’austerità, si aggiungeva una inflazione prossima al 20 per cento dei tassi d’interresse a favore delle banche; in più dilagava il terrorismo, di destra e soprattutto di sinistra, che tenevano sotto scacco lo Stato. Oggi, fortunatamente, il terrorismo non c’è in quelle dimensioni, anche se nel lumpenproletariat urbano che sta dietro il variegato movimento di Grillo, sono visibili conati di terrorismo internazionale che non vanno trascurati. Proponendo una “solidarietà nazionale”, Moro riuscì a fatica a convincere i democristiani riottosi (Scalfaro, Ciccardini, per fare due nomi) a dare vita a un nuovo governo, ancora affidato ad Andreotti (uomo della minoranza democristiana) che, per un programma concordato nei minimi dettagli con Berlinguer e per una struttura ministeriale diversa dalla tradizionale, trovasse, per la prima volta, anche il voto favorevole del Pci. La strage di via Fani spazzò via questa intelligente soluzione, che riscattò un sistema politico e gli stessi grandi partiti: frammentati. divisi, incerti sul futuro da assegnare all’Italia.
La linea della solidarietà nazionale non era la stessa cosa della grande coalizione, formula invece adottata più volte in Germania, come in Olanda e in Belgio, ogni qualvolta l’eccesso di spaccatura politica verticale in quei paesi consigliò il ricorso a governi di coabitazione fra partiti sino alla vigilia del voto reciprocamente antagonistici. Diversa ancora è la formula del “governissimo”, cioè di una maggioranza parlamentare e di governo costituita dai due principali partiti esistenti ( nello specifico la Dc e il Pci) con una non chiusura nei confronti dei partiti intermedi, soluzione che fu suggerita, dopo il crollo del Muro di Berlino, sia da parte comunista (Beppe Vacca, dell’Istituto Gramsci) che da parte cattolica (andreottiani e Comunione e liberazione sulle colonne de “Il Sabato”. La differenza fra governissimo e grande coalizione, oltre che nella difformità dei contesti, sta che, mentre la seconda venne cercata e realizzata (in Germania) dopo una consultazione politica, il secondo venne proposto molto prima di una battaglia elettorale e in presenza di una crisi marcata del pentapartito, cioè di una coalizione fra Dc-Psi-Psdi-Pri e di un Pli che aveva discusso, e solo marginalmente attuato, il lib-lab, cioè un dialogo fra liberali e socialisti craxiani, ben visto dalla medioalta borghesia lombarda.
Se ci si mette a discutere pregiudizialmente a chi spetti l’onere della prima mossa, cadremmo in una questione di lana caprina. Il tema proposto da Moro, e entrato nella cultura del cattolicesimo politico sino a quando ve n’è stata traccia, era quello di trovare un accordo fra forze contrapposte che, in una condizione di emergenza economica e politica, assumessero una condotta solidale almeno sino a quando non si fosse data attuazione ad alcune emergenze: cioè a riforme incidenti nell’economia, nelle istituzioni, nella costituzione, che non è un libro dei sogni e neppure una Bibbia indiscutibile. Se si comincia coi pregiudizialismi ideologici contro qualcuno, in verità si dimostra di non possedere un’alta caratura democratica. Condannare aprioristicamente gli elettori a tornare alle urne è una assurdità: basti pensare che tale richiesta è stata avanzata, prima e dopo il voto, dall’antisistema Grillo. Una forzatura grossolana – sia la pregiudizialità antiberlusconiana o la ricerca di una maggioranza numerica con chi ci sta – sarebbe in ogni caso una prova di debolezza e di incapacità di pensare la politica in positivo.
Giovanni Di Capua