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Papa Ratzinger ha rinunciato come un Re

Grazie all’autorizzazione dell’editore e dell’autore, pubblichiamo l’articolo di Marco Bertoncini comparso sul numero odierno del quotidiano Italia Oggi diretto da Pierluigi Magnaschi.

È senza sosta la serie d’interrogativi grandi e piccoli che a proposito del “Papa emerito” si pongono non soltanto vaticanisti, esperti, cronisti, ma diremmo la gente comune. La definizione stessa è in bilico: senz’altro Joseph Ratzinger sarà “vescovo emerito” della diocesi che ufficialmente e latinamente è definita “Urbs seu Romana”, ma è difficile prevedere se il titolo di “sommo pontefice emerito” gli sarà concesso.

Si potrebbe, per curiosità, dare un’occhiata a qualche precedente nel caso di sovrani. Già l’abbandono del trono da parte di un Re presenta una fondamentale analogia con la rinuncia del Papa: in entrambi i casi non si tratta di “dimissioni” e l’atto col quale un sovrano se ne va non richiede alcuna accettazione, come non l’ha richiesta la rinuncia pontificia. Ci sono soltanto burocratiche indicazioni: nel caso del papa, occorre che la rinuncia sia debitamente (“rite”, in latino) manifestata.

Una forma di pubblicizzazione, questa, che fu presente pure nell’abdicazione di Vittorio Emanuele III: fu richiesta semplicemente la sottoscrizione dell’atto su carta bollata, di fronte a notaio che autenticò la firma, con errata indicazione della data (visibilmente corretta) da parte del sovrano. Un’altra pubblicizzazione sarà costituita dal discorso di rinuncia pronunciato da Benedetto XVI che apparirà nel fascicolo di febbraio 2013 degli Acta Apostolicae Sedis, la Gazzetta Ufficiale della S. Sede.

Vittorio Emanuele III, come in precedenza Carlo Alberto, andò in esilio. Il papa resterà, invece, all’interno della cinta muraria in cui ha finora operato e vissuto. Altro caso: Vittorio Emanuele I. Dopo aver abdicato, visse in varie città fuori del Regno Sardo, prima di tornare nei suoi Stati, morendo nel castello di Moncalieri.

Era salito al trono dopo l’abdicazione di Carlo Emanuele IV, il quale (ecco un precedente cui prestare un minimo di attenzione) si riservò titolo e dignità regia, con un assegno vitalizio che fu giudicato dal successore smodato, tale da costrin-gere l’erede a “être un roi mourant de faim”, a essere un re che moriva di fame. Il papa, per ora, ha soltanto stabilito la propria residenza; quanto all’assegno di mantenimento, se così vogliamo definirlo, basterebbero ampiamente i proventi dei (lucrosi) diritti d’autore (alla Libreria Editrice Vaticana sono affidati i diritti per atti e documenti del pontefice in carica). Ovviamente si dà per scontato che ogni spesa inerente a mantenimento, sicurezza, spostamenti (ci saranno mai?) sarà a carico della S. Sede. Nel caso del vescovo emerito, compete alla «diocesi in cui ha prestato servizio» provvedere a un «degno sostentamento».

Il mantenimento del titolo reale è un fatto che a non pochi ex sovrani preme. Edoardo VIII, costretto all’abdicazione nel 1936, divenne semplicemente il duca di Windsor, lui che era stato re del Regno Unito e dei suoi Domìni, oltre che imperatore delle Indie. Il titolo di “maestà” si riserva a sovrani abdicatari (il sovrano in esilio che non abbia rinunciato al trono è caso diverso), ma c’è chi ritiene più congruo ricorrere al semplice “altezza”.

Si può ricordare che in Eterno femminino regale Giosuè Carducci si difese brillantemente dall’accusa di aver apostrofato la regina Margherita con l’appellativo di “signora”: a suo avviso le competeva.

È facile prevedere che nei confronti di papa Benedetto si userà ancora “santità”, posto che lo stesso cerimoniale pontificio, che una volta riservava tale appellativo al solo successore di san Pietro, l’ha esteso. È elargito a taluni patriarchi e a qualche sommo sacerdote di altre religioni, dal patriarca di Costantinopoli (Anassagora, invece, quando incontrò Paolo VI, fu chiamato, come tutti i patriarchi, col semplice appellativo di “beatitudine”), al papas dei copti (alla morte di Shenouda III, nel marzo scorso, papa Benedetto emanò un messaggio in ricordo di “Sua Santità”), al Dalai Lama.

Ci si potrebbe chiedere come mai tante questioni non siano mai state esamina-te. In effetti per secoli, prima dell’età moderna, teologi e canonisti si rincorsero di-squisendo di temi come il papa eretico, il papa impazzito, la deposizione del papa, la rinuncia del papa. Dopo il concilio di Costanza, che pose fine al grande scisma d’Occidente, simili argomenti sono stati ben poco trattati. Sono scarni pure i com-menti ai canoni che trattano della rinuncia del papa nel Codex del 1917 e in quel-lo vigente, del 1983. Incertezze sono circolate in questi giorni sulla partecipazione del pontefice rinunciatario al collegio cardinalizio. I pochissimi precedenti fanno però ritenere che occorrerebbe un atto del successore per chiamare Benedetto XVI fra i cardinali.

Quanto, più in generale, alla convivenza fra un pontefice e un successore, la storia della Chiesa due volte millenaria ha visto ben più gravi problemi, quali la coesistenza di due pontefici che si proclamavano entrambi legittimi, lanciandosi reciproche accuse anche in termini poco umani (prima ancora che poco cristiani). Se la cristianità dovette convivere, tra il 1409 e il 1415, con ben tre papi, tutt’e tre reputati legittimi da distinti settori del mondo cattolico (teologi, principi, vescovi, ordini_), che volete che sia, al confronto, la contemporanea presenza di un papa che ha rinunciato e del suo successore?

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