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Gli effetti geo-politici dei tagli al Pentagono

Comunque vadano i negoziati sul tetto del budget americano, i fondi alla Difesa sono destinati a essere grandemente ridimensionati: si parla del 10 per cento di tagli nei prossimi dieci anni, almeno. La spesa del Pentagono rappresenta il 20 per cento del budget federale e il 50 per cento delle spese discrezionali, e quindi, come ha scritto Michèle Flournoy sul Wall Street Journal (e lei al Pentagono ci ha lavorato, anzi, è stata la donna che ha fatto più carriera là dentro, si diceva che potesse anche dirigerlo, il Pentagono), andrà a far parte di qualsiasi accordo si troverà al Congresso.

Naturalmente non è una mera questione di soldi: ne va della sicurezza nazionale e del ruolo degli Stati Uniti nel mondo, per non parlare delle ripercussioni che avrebbe sul resto del mondo che si bea dietro al sistema di difesa statunitense. Secondo Flournoy è necessario fare tagli intelligenti, tipo quelli ai dipendenti civili (che sono cresciuti di 100 mila unità in un decennio, ora sono quasi 800 mila) e quelli all’assistenza sanitaria gestita dal ministero della Difesa, che copre 10 milioni di americani, compresi quelli che potrebbero usufruire di società private, e non lo fanno. Ci sono poi altri costi in infrastrutture che sono cresciuti in modo esponenziale negli ultimi 25 anni, senza però portare uno snellimento delle pratiche e delle strutture della Difesa, con conseguente blocco burocratico.

Tagliando questi costi, la leadership americana non subirebbe grandi tracolli (sempre che la politica resti salda, e si vedono sbavature ovunque ora che la cosiddetta “guerra sporca” di Barack Obama è sotto gli occhi di tutti, droni, “killing list” e guerra preventiva compresi – quest’articolo è molto chiaro al riguardo).

Ci sono altre versioni di tagli che invece hanno un senso politico ben più chiaro: Barney Frank, democratico di peso che siede nell’House Financial Services Committee, ha scritto su Foreign Policy che il modo migliore per tagliare è togliersi dal mondo. Ritirarsi. Al fondo c’è l’idea che il mondo post caduta del muro è ben più gestibile di quanto ce la vogliono vendere: i terroristi fondamentalisti islamici sono difficili da prendere e da localizzare, ma non servono tutte le infrastrutture anti attacco nucleare predisposte durante la Guerra Fredda, né occupare terre straniere. Franck cita anche quei conservatori che sostengono che aumentare le spese non serve (cioè lo stimolo è inutile) a meno che non siano spese per la difesa: definisce la loro teoria “weaponized keynesism”, e non lesina ironia naturalmente.

Un bel saggio di Jill Lepore sul New Yorker ha messo in luce la storia dell’esercito americano, con una venatura antipatizzante riconoscibile fin dall’attacco. L’America spede in Difesa più di tutti gli altri paesi del mondo messi assieme, scrive Lepore, e pensare che i padri fondatori ritenevano che l’esercito dovesse essere messo insieme soltanto in caso di minaccia imminente (l’avete già sentita quest’espressione, giusto?). Quanta forza è sufficiente?, chiede Lepore: la Casa Bianca ancora non ha deciso, ma intanto ha nominato alla guida del Pentagono un repubblicano-colomba che assomiglia al presidente più di quanto si immagini: se sarà confermato, Chuck Hagel taglierà le spese, mentre piano piano l’America si ritirerà dal mondo. Perché questo non sia definito “declinismo” ci vorrà tutta la retorica dello staff presidenziale.

Articolo tratto dal sito del Centro di ricerca e documentazione Luigi Einaudi



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