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Il peso regionale del conflitto siriano

Pubblichiamo l’executive summary sul “Medio Oriente″ del rapporto annuale dell’Osservatorio strategico del Centro militare di studi strategici militari (CeMiSS) che sarà presentato il 27 febbraio a Palazzo Salviati di Roma. Il testo raccoglie la produzione sviluppata per ognuna delle 13 aree monitorate nel 2012 e fornisce un quadro prospettico e previsionale nel breve termine.

L’anno 2012 ha confermato in Medio Oriente il trend di mutamento iniziato nel corso del 2011, vedendo consolidarsi in alcuni Paesi nuove élite politiche e significativi cambiamenti sociali. La natura degli eventi che hanno determinato tale trend è stata tuttavia altamente eterogenea, provocando evoluzioni differenti in ognuna delle aree coinvolte e lasciando ancora indecisi numerosi dei principali fenomeni in mutamento.

La crisi di maggiore rilevanza nell’area è senza dubbio rappresentata dall’evoluzione del conflitto interno siriano, caratterizzato da un costante incremento della violenza e da un progressivo irrigidimento delle posizioni politico-militari della leadership di Bashar al-Asad.

Nel paese si contrappongono un regime autoritario parzialmente delegittimato e in profonda crisi e un’opposizione frastagliata, eterogenea e tutt’altro che lineare nelle decisioni e compatta nell’azione. Per capacità e possibilità di gestione del conflitto stanno emergendo soprattutto cellule jihadiste d’ispirazione salafita, che non offrono alcuna garanzia di una migliore e più opportuna soluzione e stabilizzazione della crisi. Esse rispondono, invece, a dinamiche d’intervento e linee di sostegno internazionali spurie, contraddittorie e spesso controproducenti per gl’interessi delle democrazie dell’emisfero nord.

La più recente crisi tra Israele e palestinesi nella Striscia di Gaza, per quanto ampiamente commentata sulla stampa nel recente passato, è stata in definitiva contenuta in termini d’impatto regionale anche perché si è svolta secondo schemi militari già dolorosamente noti.

La responsabilità dell’evento è addebitabile all’intransigenza di alcune delle fazioni armate in seno ad Hamas, che lamentano da tempo la stagnazione nei colloqui tra Tel Aviv e l’Autorità Palestinese, e che hanno deciso di provocare la reazione israeliana attraverso un incremento dei lanci di razzi verso Israele.

Per il premier Benjamin Nethanyahu si è trattato di un’opportunità in vista delle elezioni politiche di fine gennaio e di un eventuale segnale a favore di un attacco agli impianti nucleari iraniani. Nel primo semestre del 2013 risulterà tuttavia attiva e di particolare interesse per l’Italia anche l’evoluzione della dinamica politica interna all’Egitto e alla Repubblica Islamica dell’Iran.
In Egitto, il presidente Morsi ha ottenuto l’approvazione della nuova Costituzione con un 57% di voti, ma deve stemperare un clima politico molto teso con le opposizioni. Le accuse mosse al presidente e relative ad un tentativo di islamizzazione della politica nazionale sono in larga parte strumentali ed immotivate, ma espressione ed indicazione di un tessuto politico sociale tutt’altro che dominato a maggioranza dalla Fratellanza Musulmana.

E dove quindi Morsi dovrà muoversi con equilibrio e pragmatismo per evitare l’esplosione di disordini e scontri. In Iran, invece, nel giugno del 2013 si terranno le elezioni presidenziali, segnando la fine del duplice ed altamente discusso mandato di Mahmood Ahmadinejad, e avviando con ogni probabilità un processo di normalizzazione che porterà all’elezione di un candidato più vicino alla Guida Suprema Khamenei e meno orientato alla gestione critica del rapporto in politica internazionale.

L’emergere delle forze fondamentaliste, più pragmatiche e moderate, unitamente alla forte pressione imposta dalla crisi economica derivante dall’incremento delle sanzioni, potrebbe contribuire ad innescare un meccanismo di maggiore flessibilità ed apertura nel dialogo con l’occidente e gli Usa in particolare, soprattutto sul delicato dossier nucleare.

Deve destare interesse, infine, l’evoluzione delle dinamiche politiche e della sicurezza nella penisola arabica, dominate dall’emergere di un forte sentimento anti-monarchico ad opera soprattutto delle minoranze sciite sia in Bahrain che in Arabia Saudita. Dove i moti di protesta, numerosi e consistenti, sono stati brutalmente repressi nell’indifferenza dei media occidentali.

L’Arabia Saudita si conferma il dominus politico della regione, con una straordinaria capacità d’influenza dettata dalla sua ampia disponibilità finanziaria, ma con una struttura interna del quadro politico altamente preoccupante, stante il grave stato di salute del sovrano e la difficoltà nell’individuare in modo non conflittuale linee di successione alla prima generazione politica della casa reale, esauritasi.

Nicola Pedde è direttore dell’Institute for Global Studies e della ricerca sul Medio Oriente e Golfo Persico presso il Centro militare di studi strategici del Centro alti studi per la difesa.



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