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Sull’Eni di Scaroni un deleterio masochismo made in Italy

Pubblichiamo il commento dell’editore associato di MF/Milano Finanza, Gabriele Capolino, pubblicato ieri sul quotidiano MF diretto da Pierluigi Magnaschi

Ironia della sorte, Paolo Scaroni era in Algeria in missione quando la Guardia di Finanza ha perquisito la sua abitazione su ordine dei magistrati De Pasquale, Baggio e Spataro. In attesa di vedere quali saranno i concreti elementi di accusa nei confronti di Scaroni e la sua correità per l’affaire delle tangenti pagate per l’acquisizione della commessa Sonatrach-Saipem, restano tuttavia alcune perplessità di fondo sulla decisione dei magistrati: infatti non sempre ci si può trincerare dietro il concetto di atto dovuto per giustificare decisioni che hanno una rilevanza mondiale, visto il ruolo dell’Eni in campo energetico.

Primo punto, la separatezza fra i business. Eni e Saipem fanno due mestieri completamente diversi, in cui l’unico fattor comune è il colore della materia prima. Saipem concorre a gare d’appalto internazionali per l’estrazione e vanta tra i suoi clienti tutte le compagnie petrolifere del mondo, da Exxon a Bp, a Total. Ovvio che queste ultime pretendano che la Saipem sia ben distante nella sua operatività dall’Eni, pena concorrenza sleale. Ecco quindi che sono stati messi in piedi dei gradi di separazione accentuati tra la governance di Saipem e quella di Eni. Quindi non si applica il teorema del «Non poteva non sapere».

Secondo punto, il presunto incontro tra Scaroni e il faccendiere Farid Noureddine Bedjaoui, che per i magistrati è il reale collettore della tangente grazie a rapporti di conoscenza molto profondi con Pietro Varone, ex direttore generale della divisione Engineering & construction di Saipem. Incontro che sarebbe avvenuto durante un meeting tra il numero uno di Eni e Chabib Khelil, il potente ex ministro dell’Energia algerino ed ex presidente dell’Opec, nel corso del quale Bedjaoui fu presentato alla delegazione italiana come un assistente di Khelil. Ora, si può immaginare di tutto, ma che il capo dell’Eni si metta a indagare sulla reale identità dei presenti è un po’ velleitario. E che nella stessa riunione ci si metta a parlare di tangenti apertis verbis, idem.

Terzo punto, la reazione dell’Eni nel momento in cui i magistrati resero note le loro risultanze sull’inchiesta è stata immediata, con la sostituzione dell’amministratore delegato di Saipem, del suo numero due e del direttore finanziario dell’Eni stessa, che in passato era in Saipem. Il che stride con un eventuale coinvolgimento di Scaroni.

Quarto, inutile fare i paracadutati da Marte. Se la tangente di cui si parla è pari a 197 milioni e la gara aggiudicata è di 11,3 miliardi, il quantum illecitamente pagato è pari all’1,7%. I concorrenti francesi, americani e tedeschi di Saipem si sarebbero baciati i gomiti, in confronto a quanto pagano loro per gare del genere. Quell’1,7% implicitamente abbatte anche un altro preconcetto, figlio della prima Mani Pulite, in cui le tangenti pagate all’estero erano molto copiose perché poi in buona parte ritornavano in Italia. In questo caso, sembra l’esatto opposto. Il tafazzismo italiano prosegue imperterrito.



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