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Che fenomeni quelli del Pd, avevano Maradona-Renzi per andare in gol ma hanno voluto farsi un autogol

Grazie all’autorizzazione dell’autore e del direttore del Tempo, Sarina Biraghi, ospitiamo il commento dell’editorialista Federico Guiglia pubblicato oggi sul Tempo

Non è successo soltanto a Mariotto Segni. Aveva la schedina vincente in mano – all’epoca dei trionfi referendari – “ma l’ha persa per strada”, come si diceva con perfidia di chi aveva l’Italia con sé, eppur non è mai riuscito a governarla.

Come Mariotto, anche il Pd aveva fatto tredici. Ma il Pd ha deciso, ciononostante e consapevolmente, di buttare a mare la vittoria già acquisita e perfino dagli altri riconosciuta con largo anticipo. Il boomerang ha una data e un nome precisi: 2 dicembre 2012, Matteo Renzi. Fu il giorno del “facciamoci del male”, il giorno in cui il giovane più emergente d’Italia perdeva il ballottaggio alle primarie del centro-sinistra. E all’allora vincitore Pierluigi Bersani oggi tocca dire con voce mesta e onesta: “Non abbiamo vinto, anche se siamo primi”.

Ma chi gliel’ha fatto fare a lui e a loro – loro: la nomenclatura del Pd – di cambiare il certo per l’incerto, il fiorentino di trentasette anni che aveva sbaragliato ogni concorrenza e sbalordito tutti gli avversari, per  l’”usato sicuro” Bersani? Perfino Silvio Berlusconi, l’antagonista nel centro-destra, aveva detto che, se c’era Matteo l’evangelista, il portator della “buona novella” in politica, lui avrebbe rinunciato a presentarsi, tale e tanta era la forza attrattiva di questo Gian Burrasca che voleva rottamare il mondo (o almeno il suo partito).

Non solo. La voglia di novità che Renzi esprimeva con un linguaggio da “pane al pane”, e con proposte politiche ed economiche al di là del recinto progressista, avrebbe fatalmente attenuato l’onda lunga di Beppe Grillo. Per esempio con l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti che Renzi proponeva da sempre, e che è uno dei cavalli di battaglia del Movimento 5 Stelle.

Non c’era bisogno del senno del poi, né dei sondaggi che pur confermavano il senno del poi, per capire che Matteo Renzi sarebbe stato l’asso nella manica per la coalizione di centro-sinistra, rendendo ardua la rimonta del Pdl e intercettando una parte non piccola del consenso anti-casta del Grillo ora tracimante. Al costo, evidente ma elettoralmente modesto, di perdere una parte del Sel e del radicalismo di sinistra.

Forse il governo del Paese valeva bene una mossa: la mossa che avrebbe consentito al Pd di candidarsi con la credibilità del rinnovamento, anziché dover adesso fare i conti con l’ingovernabilità del Senato, cioè del Parlamento. Avevano già vinto con il sindaco di Firenze. Ma il Partito ha detto “no”, condizionando le pur aperte primarie. Che hanno confermato quell’inspiegabile no. Nella mischia è finito il segretario Bersani dal Partito sostenuto. E questo ha determinato, allo stesso tempo, il ritorno di Berlusconi e la valanga di Grillo. Perché l’avanzata del suo Movimento nelle ultime ore discende, secondo gli esperti, proprio da elettori delusi del Pd.

Un capolavoro: avevano Maradona, ma l’hanno lasciato in panchina. “Non abbiamo vinto, anche se siamo primi…”. Neanche Mourinho avrebbe saputo dir meglio.

Federico Guiglia

f.guiglia@tiscali.it



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