Giuliano Cazzola ex Pdl, candidato al Senato in Emilia Romagna nella lista Scelta civica con Monti, come intendete correggere la riforma Fornero?
Con cautela. Se il governo Monti ha credito in Europa non è soltanto il profilo del premier, per il fatto che indossa il loden, non ha paura di sembrare anziano, nelle foto di gruppo non “fa le corna” dietro la testa del collega a lui vicino e non racconta barzellette durante i vertici come il suo predecessore.
Insomma, solo questione di bon ton e di bunga bunga.
No. Il governo dei tecnici ha due cifre, una E ed una F come Elsa Fornero. Ed è stimato all’estero – forse con un po’ di esagerazione – per le due riforme volute dal ministro del Lavoro: quella delle pensioni e quella del mercato del lavoro. Guai a gettare il bambino con l’acqua sporca. Così noi proponiamo di correggere ulteriormente taluni aspetti della flessibilità in entrata che restano troppo vincolanti e di farlo incoraggiando le parti sociali a presentare degli avvisi comuni in cui siano segnalate le incongruenze, che ci sono e che vanno superate.
Non capisco, è troppo tecnico. Facciamo qualche esempio.
Le racconto un caso accaduto: la vicenda riguarda l’Aeca dell’Emilia-Romagna, un’organizzazione che raggruppa gran parte dei centri di formazione professionale di matrice cattolica (a partire dall’Istituto dei Salesiani che ha fatto della formazione la propria mission). L’Aeca ha, in regione, ben 350 dipendenti a tempo indeterminato, assunti e retribuiti sulla base delle norme del contratto collettivo nazionale del settore. Oltre a questo organico stabile gli enti associati hanno la necessità di avvalersi di personale assunto in via temporanea (sia come docenti che come esperti) da impiegare in attività formative destinate a variare ad ogni anno scolastico, in base alle domande per l’istituzione di nuovi corsi ricevute o dei finanziamenti acquisiti.
Si sta dilungando troppo. Veniamo al dunque.
In sostanza, nel ciclo formativo 2011-2012 l’Aeca aveva assunto altre 240 persone con contratti di collaborazione. Per l’anno 2012-2013, con inizio il 30 settembre, la dirigenza ha dovuto scervellarsi per risolvere i propri problemi nell’ambito dei nuovi vincoli legislativi derivanti dalla legge Fornero. Il risultato è stato l’assunzione di 90 persone con contratto a termine. Così gli altri 150 hanno dovuto cercarsi un altro impiego. Va da sé che sui c.d. terministi si è concentrato un maggior numero di ore, con tutti gli effetti, anche economici del caso. Gli enti, però, hanno dovuto rinunciare, in parecchie circostanze, ad avvalersi di esperti che, per la loro attività autonoma, non erano interessati ad un’assunzione di carattere subordinato. In conclusione, non possiamo negare che taluni cambiamenti possono essere considerati positivi: il lavoro a termine è più tutelato dei rapporti di collaborazione. Ma sono molti di più quelli che hanno perduto un impiego che svolgevano da anni. Nella attuale situazione dell’economia e dell’occupazione dove sta il danno minore?
Ma è proprio necessario intervenire di nuovo sul lavoro? Non è bene far assestare la normativa, come dice Enrico Letta?
Non crediamo necessario ribaltare nuovamente il diritto del lavoro. Le aziende si stanno ancora interrogando su come assumere, su come licenziare e su come applicare i nuovi ammortizzatori sociali. La nostra proposta è un’altra: quella di promuovere un impegno delle parti sociali a riformare il contratto a tempo indeterminato, tramite la contrattazione decentrata e gli effetti che ad essa può attribuire l’applicazione dell’articolo 8 della dl 138/2011, la norma introdotta da Maurizio Sacconi e irriducibilmente contestata dalla sinistra e dalla Cgil. Una maggiore apertura in uscita potrà essere integrata con l’attivazione degli incentivi giusti per imprese e lavoratori e il potenziamento dei servizi all’impiego pubblici e privati, e soprattutto dell’assistenza intensiva nella ricerca di una nuova occupazione, con l’obiettivo di offrire altre opportunità a chi ha perso il lavoro (flexsecurity). Il contratto a tempo indeterminato – rimodulato su di una maggiore flessibilità, mobilità e occupabilità – diverge dalla proposta del “contratto unico a tutela crescente” cara a Tito Boeri e al gruppo de La Voce-Info. Il nostro progetto non pretende, infatti, di ridurre tutti i possibili tipi di contratto di lavoro a uno solo: il tessuto produttivo non può certo fare a meno dei contratti a termine o delle vecchie e nuove forme di rapporti flessibili, se correttamente applicati.
Non pensa che tornare di fatto a discutere di articolo 18 sia controproducente anche politicamente?
Le rispondo con franchezza. Noi non vogliamo rimettere in discussione, ora, la nuova disciplina del licenziamento individuale come regolata dalla legge Fornero. Vorremmo però mettere a disposizione delle parti sociali la possibilità di sperimentare un modello diverso, più flessibile e meno costoso (anche dal punto di vista normativo e non solo economico). E’ una facoltà derogatoria loro riconosciuta appunto dal citato articolo 8.
Non ritiene più pragmatica l’idea del Pdl di ritornare alla legge Biagi?
Nessuno dei rapporti flessibili introdotti dalla legge Biagi è stato abolito dalla riforma Fornero. Se riusciremo, dopo un periodo di sperimentazione, a riaprire la questione di una maggiore apertura in uscita, avremo risolto il principale problema del mercato del lavoro italiano. Il Pdl insiste nel piantare le bandiere che anche a me sono care. Io ho condiviso, difeso e fatto avanzare, durante tutta la legislatura, le idee di Sacconi, la maggioranza delle quali però, anche dopo essere diventate leggi, restano scritte sulla carta.
Ha mai pensato anche lei, come poi hanno deciso Giampaolo Galli e Carlo dell’Aringa, di candidarsi nelle liste del Pd? E perché?
Non vedo perché avrei dovuto avere un pensiero siffatto. Ho stima sia di Galli che di Dell’Aringa e giudico il Pd un partito serio, ma è troppo condizionato prima ancora che dalla Cgil (se Camusso starnuta il 60% dei parlamentari del Pd si soffia il naso), dalla sua base e dal suo elettorato che vedono svanire le certezze e i riferimenti in cui hanno creduto e faticano ad accettare questo cambiamento. La sinistra è sempre alla ricerca di un’altra via, di un modo diverso, di un’altra Europa, di un nuovo modello di sviluppo e giù innovando. Ha il pallino del welfare state che è rimasto in Europa l’ultimo Muro di Berlino. Io credo, invece, che abbia ragione Angela Merkel quando spiega che i mali della Europa sono racchiusi in tre cifre: il Vecchio continente ha l’8% della popolazione mondiale, produce il 25% del pil, consuma il 50% di tutta la spesa sociale.
La Spagna è il Paese che, nel campo del lavoro, ha il massimo di flessibilità. Eppure questo dato non le ha consentito di avere più occupazione, ma anzi vanta quasi un record europeo quanto a disoccupazione, come è emerso ieri.
Io che critico coloro che pretenderebbero di risolvere il problema del lavoro precario a suon di proibizioni e di obblighi, non cado nella trappola di sostenere che sono le norme flessibili a creare occupazione se non è l’economia a farlo. Senza crescita economica non ci sono nuovi posti di lavoro. Basta però anche una crescita modesta per consentire risultati occupazionali migliori se i rapporti di lavoro sono flessibili. Dal 1997 al 2007, a fronte di una crescita media annua del pil pari a 1,5% si sono creati più di 3 milioni di posti di lavoro. Le anime belle di quei tempi parlavano di cattiva occupazione e criticavano in tutti i modi i call center. Ora che queste aziende si sono trasferite in Romania, in Albania o in altri Paesi, quei posti li andrebbero a cercare.