I due principali gruppi industriali italiani, Eni e Finmeccanica, sono nel mirino della magistratura per corruzione internazionale. Cosa sta succedendo al nostro capitalismo? Possibile che due giganti come Saipem e Finmeccanica non siano in grado di fare affari se non pagando mazzette? Il Diario del Lavoro ha rivolto la domanda a Giuseppe Berta, storico dell’impresa industriale e docente alla Bocconi.
Professore, è davvero indispensabile pagare tangenti per fare business a livello globale?
Be’, diciamo che è improbabile poter realizzare un affare da molti miliardi senza pagare. Purtroppo le tangenti sono prassi consolidata, e in particolare lo sono nel mondo del petrolio e degli armamenti, che si muovono in Paesi nei quali la corruzione è strutturale. Anche se, a dire il vero, oramai sembra essere strutturale anche in Italia.
Le inchieste delle varie procure ormai coinvolgono banche e imprese di primaria grandezza. Secondo lei, a cosa è dovuta questa deriva verso l’illegalità?
Intanto occorre dire che molti di questi fenomeni corruttivi nascono in aziende che facevano parte del capitalismo di Stato, come appunto l’Eni e la Finmeccanica. Enrico Mattei si vantava di usare i partiti politici come dei taxi, ricorda? Il capitalismo di Stato nasce con questo imprinting.
Tangentopoli non ha dunque insegnato nulla?
Io credo che Tangentopoli, più che aver rappresentato un’operazione di pulizia, abbia diffuso l’idea che la strada più breve per accedere velocemente alla ricchezza è proprio quella della corruzione. Tanti che prima non praticavano questi sistemi, dopo Mani Pulite hanno iniziato a farlo. Basta considerare le cifre: vent’anni fa il giro delle mazzette era irrisorio, rispetto a quello che è oggi.
Certo, ma perché, nel frattempo, sono state eliminate le leggi che aiutavano ad arginare il fenomeno corruttivo. Per esempio, l’abolizione del falso in bilancio non ha aiutato le imprese a imboccare il sentiero della trasparenza e della legalità. Il centro sinistra promette che se andrà al governo reintrodurrà questo reato. Lei che ne pensa, sarà utile a stroncare la corruzione?
Giusto ripristinare il reato di falso in bilancio, ma illusorio pensare che risolverà il problema. Con una economia sempre più internazionalizzata i sistemi di controllo classici sono inefficaci, si possono aggirare in mille modi. Per cui non penso che sarà un reale deterrente alla corruzione.
E cosa altro sarebbe necessario?
Un sistema di regole internazionali, che infatti tutti invocano. Ma, per la verità, io non vedo una autorità internazionale in grado di farle poi valere e rispettare.
Eppure, negli Usa sono più severi che da noi. L’Eni, per dire, ha dovuto pagare una multa pesantissima alla Sec, la Consob americana, per il caso delle tangenti in Nigeria.
Non credo proprio che le multinazionali Usa del petrolio abbiano comportamenti diversi dall’Eni. La differenza, magari, è che negli Stati Uniti esiste un lobbismo aperto e trasparente che governa i rapporti tra il mondo degli affari e quello della politica, mentre da noi si fa tutto sottobanco.
E quindi sarebbe utile un sistema di lobby analogo anche da noi?
Per carità, il nostro sistema politico non avrebbe assolutamente la capacità di tenere testa a un lobbismo stile americano! Ma sta di fatto che nel mondo economico un certo tasso di corruzione è endemico. Tutti i grandi padri fondatori del capitalismo americano erano dei geni da un lato, dei furfanti dall’altro. Ford, per dire, era un genio industriale, ma era anche uno che mandava i suoi scagnozzi a massacrare i sindacalisti. Il capitalismo ha un lato razionale e uno oscuro, due aspetti che coesistono storicamente.
Quindi ci dobbiamo rassegnare?
Stento a immaginare un capitalismo del tutto nitido e pulito: dove girano i soldi, c’è sempre la spinta a usare le scorciatoie. Si tratta perciò di contenerla, creando non solo un cordone sanitario di regole, ma anche un sistema di comportamenti politici adeguati ad ammortizzare questa spinta: invece il nostro sistema politico attuale finisce per amplificarla e propagarla. Se la morale corrente è intrisa di corruzione, come potrebbe il capitalismo non esserlo?
Alcuni sostengono che le inchieste della magistratura danneggiano l’economia italiana più della stessa corruzione. Lei che ne pensa?
L’economia nel suo complesso no, ma le singole imprese colpite dai casi di cui stiamo parlando sì, certamente. E questo mi preoccupa. Dobbiamo renderci conto che stiamo per affrontare un periodo molto oscuro: se dal voto non usciranno un governo e una maggioranza ben delineati, avremo un periodo di forti incertezze e di ulteriore rallentamento dell’economia. E quindi, qualcuno che sia interessato a mettere le mani su alcuni pezzi del nostro patrimonio industriale a prezzi di saldo sicuramente ci sarà.
Come si rimedia a questo stato di cose?
Certo non negando o nascondendo la corruzione, ma cercando di restituire capacità sistemica al Paese. Questo sarebbe il compito della politica, che invece parla a sproposito o tace in modo impressionante. Nel dibattito elettorale non ho sentito un solo esponente di partito, di qualunque partito, dire una parola su come si potrebbe uscire, per esempio, dal pasticcio terrificante dell’Ilva. Negli Usa la campagna presidenziale ha visto Obama e Romney confrontarsi, anche duramente, su tutti i temi economici di interesse del Paese, da noi invece di parla solo dell’Imu: come se gli spiccioli di questa tassa fossero la chiave per risolvere tutto, trascurando invece lo scenario tragico su cui ci stiamo muovendo. Siamo un Paese in caduta libera, che non sa come fermare la sua caduta, e che, soprattutto, sta perdendo qualsiasi speranza di poterla mai fermare.
Nunzia Penelope
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