I più significativi governi a guida islamista del Nord Africa, Egitto e Tunisia, sono entrati entrambi in una spirale di violenza e incompetenza. Un esito che mette drasticamente in dubbio la possibilità che essi possano essere gli agenti della trasformazione democratica che i paesi occidentali si aspettano dopo la transizione iniziata nel 2011.
Società islamica
Nelle ultime settimane in Egitto ci sono stati circa sessanta morti, mentre l’azione governativa e le risposte del presidente vieppiù convincono gli egiziani che i Fratelli musulmani stanno semplicemente cavalcando lo stesso stato di polizia e repressione che vigeva al tempo di Mubarak. Qualche giorno fa, l’assassinio in Tunisia di Chokri Belaid, leader del partito dell’Unione democratica nazionale – un piccolo partito di sinistra all’opposizione – ha messo in evidenza il malessere che nel paese è aumentato contestualmente al crescere delle violenze e delle intolleranze di salafiti e jihadisti. La Tunisia è stata considerata un modello nella transizione democratica araba. Cosa ci aspetta ora?
Sebbene questo paese abbia saputo programmare una transizione ben più ordinata di quella egiziana e il partito islamista di maggioranza relativa, Ennahda, abbia saggiamente formato un governo di coalizione con due partiti secolari, la dirigenza di questo partito, di fronte alle impazienze e alle violenze dei salatiti e dei jihadisti, non ha saputo o non ha voluto tracciare una decisa linea di separazione fra il suo islamismo e quello più estremo. Nel governo stesso, il comportamento di alcuni ministri è rimasto decisamente equivoco. All’ascesa dell’estremismo islamico contribuisce il graduale ritorno di esiliati e la liberazione di salafiti dalle carceri che si è verificata alla caduta del vecchio regime.
Questa ambiguità ha polarizzato e rafforzato i gruppi secolari, meglio sarebbe dire laicisti, contrari in principio al dialogo con gli islamisti. Uno di questi è appunto il partito che Belaid ha guidato. Più importante il partito Nida Tounes, fondato dall’ex primo ministro della stessa era rivoluzionaria, Béji Caïd Essebsi, destinato a raccogliere buona parte della classe media bourguibista contro un islamismo che – a loro avviso – si rivela non diverso da come veniva dipinto dal regime precedente.
Sulla questione Ennahda è diviso. Nel partito c’è una forte tensione fra l’ala moderata guidata da Rachid Ghannouchi, che viene dall’esilio, e quella più ortodossa che ha come leader Sadok Chourou, che viene invece dalle galere di Ben Ali. Gli ortodossi intendono procedere senza gradualismi. La prospettiva culturale e ideologica di Rachid Ghannouchi, invece, vede una lunga transizione di islamizzazione della società al cui termine le contraddizioni con il secolarismo si supereranno da sole. I moderati del partito, perciò, invece di tagliare corto con i violenti e gli impazienti nell’area salafita e nel partito stesso tendono a chiedere loro di pazientare e contribuire piuttosto a far maturare le condizioni per l’affermazione pacifica e trionfante della società islamica o “pia”. Rachid Ghannouchi stesso fu registrato in un fuori onda in cui diceva queste cose a dei salafiti.
Ambiguità
Questa divisione è emersa subito dopo l’assassinio di Belaid: il primo ministro Hamadi Jebali, moderato, ha immediatamente proposto di sostituire con un governo tecnico il governo politico in carica, in modo che il paese possa concludere, su terreno “neutrale”, la redazione ancora in corso della costituzione e andare in giugno, come previsto, alle elezioni. Ma uno dei due partiti secolari facenti parte della coalizione guidata da Ennahda, il Congresso per la Repubblica, guidato da Moncef Marzouki, oggi presidente della Repubblica tunisina, ha ritirato i suoi tre ministri.
Successivamente ha sospeso la decisione per aspettare che la questione sia discussa dagli organi politici di Ennahda. Nella stessa direzione sembra si stia muovendo l’altro partito secolare della colazione governativa, Ettakatol.
La discussione all’interno di Ennahda non sarà facile, perché il caso punta al cuore dell’ambiguità che il partito si è trascinato in questi due anni, provocando la polarizzazione fra islamisti e secolari/laicisti che oggi minaccia la transizione tunisina non meno di quanto è accaduto, in termini più complessi, in Egitto. La proposta di Jebali non sembra sufficiente, né può fare molto senso sul piano politico. Perché mai un governo di tecnici dovrebbe soddisfare l’opposizione? E come potrebbero mai dei tecnici fronteggiare un problema politico-costituzionale come quello posto dalla violenza e dall’ideologia “tiranneggiante” di salafiti e jihadisti?
La proposta di Jebali cerca di aggirare lo scoglio della divisione dentro Ennahda. L’unica soluzione politica reale potrebbe essere un rimpasto volto ad allontanare quei due o tre ministri che hanno dato largo adito ai sospetti dell’opposizione secolare. Ma questo richiede appunto che Ennahda faccia un difficile passo politico, imponendo al suo interno la volontà dei moderati. Difficile dire se i moderati saranno in grado di farlo. Ma, se Ennahda non presenterà una soluzione convincente, la grave crisi politica che improvvisamente ha attanagliato la Tunisia potrebbe essere destinata a degenerare.
Radicalizzazione
Queste convulsioni politiche avvengono mentre, a due anni dall’inizio delle due rivoluzioni, la situazione sociale non è migliorata e si trova anzi, per molti aspetti, in una prospettiva ancora più allarmante di allora. L’andamento economico è leggermente più positivo in Tunisia che in Egitto, ma la prospettiva sociale è desolante in entrambi i paesi. I partiti islamisti guidati dai Fratelli musulmani, perciò, mentre rischiano le loro credenziali democratiche e politiche, rischiano anche quelle economiche e, più in generale, la loro credibilità politica. L’Ugtt in Tunisia è sul piede di guerra e si è trasformata nella punta di lancia dell’opposizione anti-islamista.
In occasione dei funerali di Belaid ha proclamato uno sciopero generale che ha avuto molte adesioni. Nelle elezioni egiziane per l’approvazione della Costituzione i risultati di alcuni quartieri più poveri del Cairo e del distretto degli operai tessili di Mahalla al-Koubra hanno mostrato una crescente opposizione al governo. I Fratelli musulmani potrebbero perdere le elezioni? Non è escluso, ammesso che si svolgano.
Occorre tuttavia considerare che l’erosione di consenso che per ragioni politiche e economico-sociali hanno subito alla guida di una situazione di governo obiettivamente difficile, ha già avvicinato il centro dei Fratelli musulmani dell’Egitto ai partiti salafiti. Allo stesso modo, l’ambiguità dei Fratelli tunisini potrebbe risolversi con un avvicinamento ai loro salafiti.
In altri termini, uno sbocco della crisi in corso potrebbe essere la radicalizzazione dei Fratelli musulmani al fine di avere l’appoggio dei salatiti e mantenersi al governo. Questo sarebbe uno sviluppo molto sfortunato per i democratici dei paesi in questione e molto problematico per i governi occidentali.
Roberto Aliboni è consigliere scientifico dello Iai.