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Voto utile, no grazie

I commenti di questi giorni intorno al cosiddetto voto “utile”, scaturiti a valle dell’invito congiunto dei due leader di Pd e Pdl a non disperdere voti con una scelta che verrebbe svalorizzata dall’attuale legge elettorale, hanno richiamato un concetto – quello di utilità – che ha diversi risvolti non solo nel milieu della politica, ma in qualunque realtà organizzata.

Se pertanto, come ben scrive Michele Ainis, “il voto utile trasforma l’opzione elettorale in una scelta disperata, in un voto sequestrato dalla paura del nemico”, non è detto che la definizione di utile sia la migliore per qualificare l’operato dei soggetti cooptati negli organi decisionali di una realtà organizzata, da una società di capitali fino al governo di uno Paese. E’ noto che fu Lenin a coniare un’espressione tanto curiosa quanto efficace, al fine di definire quegli alleati occasionali che possono essere utilizzati per supportare la propria causa. Ma oggi quanto è valida quella definizione e, soprattutto, quanto è frequente il ricorso all’uso di un modello di gestione del potere dove l’elemento fiduciario non sempre si accompagna a quello del merito e della capacità?

Senza alcun riferimento specifico, bensì come sola riflessione che – fra le tante, e ben più rilevanti della presente – possa contribuire a richiamare a modelli di governance più efficienti, cercherò di tratteggiare in superficie quelli che potrebbero essere i vantaggi e gli svantaggi di un modello di gestione di una realtà organizzata imperniato sull'”utile” – magari anche fedele alla definizione di Lenin – specialmente ove questo prevalga o addirittura prescinda dal modello del “bene”.
Il soggetto cooptato “utile” corrisponde ad una figura antropologica flessibile, adatta alla causa, non necessariamente brillante né tantomeno intelligente, ma – dote fondamentale – obbediente ed allineato. L’obbedienza è evidente segno di affidabilità in quanto garantisce la “corretta” esecuzione delle direttive impartite dall’alto al soggetto, appunto, utile. In più, a fronte di un compenso adeguato – vuoi in termini di esposizione mediatica, vuoi in termini meramente economici o di prestigio personale – il soggetto “utile” ha l’incentivo ad adempiere (in)consapevolmente alle direttive ricevute e senza alcuna tentazione alla lamentela. Fin qui il modello è semplice e delineato, ma naturalmente può arricchirsi con l’inserimento di fattori ed elementi particolarmente gustosi, strettamente correlati alle finalità che persegue colui che manovra il “soggetto utile”.

Detto questo, vediamone gli svantaggi per la società: questo modello distorce il mercato, perché sottrae una posizione di responsabilità ad un soggetto più meritevole in ragione delle proprie capacità e della propria libertà ed autonomia (anche intellettuale), ma non solo; il soggetto in questione toglie spazio a chi ha la visione, la cultura, la determinazione, la consapevolezza, l’ambizione, l’umiltà, e più ampiamente il merito per coprire con dignità la posizione in oggetto. Quand’anche poi questo soggetto rispondesse a direttive dettate da buon senso, la sua connotazione inevitabilmente segnata dai suoi limiti insiti nella sua mediocrità andrebbe a svilire e snaturare anche le azioni più ingenuamente dirette al bene. Ecco che pertanto il modello, in via generale, rischia di avere un impatto sostanzialmente molto negativo per la realtà organizzata che è egli chiamato a guidare.

Vediamone i possibili vantaggi: il soggetto “utile” garantisce il risultato desiderato da colui che lo dirige, se e nella misura in cui esegue il compitino senza aggiunte particolari, senza extra, e possibilmente senza interferire. Il suo operato garantisce dunque un risultato utile (agli altri) ma anche qualitativamente mediocre, in quanto le sue capacità – peraltro ben poco stimolate dall’alto – vengono limitate e coordinate (il che forse è il minor danno…). Pertanto si potrebbe arrivare a concludere che l’utilità che caratterizza l’azione del “soggetto utile” è meglio riconducibile ad un interesse particolare, più difficilmente ad interessi generali o ancor meglio al bene comune. Quand’anche poi fosse rivolto al bene comune… il risultato rischierà di avere effetti negativi amplificati o, nel migliore dei casi, mediocri.

Resta dunque aperto l’interrogativo sulla reale efficacia dell'”utile” e sul ricorso ad un simile modello di gestione, che inevitabilmente comprime le potenzialità di una realtà organizzata la quale richiede capacità, competenza, e responsabilità personale. Quante generazioni ci vorranno prima di vedere applicato un modello più dignitoso, che esalti le capacità reali e valorizzi le persone al meglio a giovamento di tutti? Non tutte le risposte si possono scrivere, ma le possiamo immaginare.

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