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World Press Photo 2012, la luce cerca di sfuggire

La foto qui sopra ha vinto il premio World Press Photo 2012. Appena l’ho vista, prima di leggere la didascalia, ho deciso di fare questo esercizio che propongo a ciascuno di voi. Ho chiuso gli occhi e ho provato a raccontarmi la realtà immortalata dal fotografo che racchiude la contingenza del momento, certamente accaduto nel 2012, curioso di vedere come l’avrei interpretata lasciando libera il più possibile la tavolozza di colori della mia sensibilità.
La prima cosa che la foto mi ha evocato è stato un sentimento di disperazione. Subito dopo mi sono venute alla mente immagini della Palestina viste sui giornali, o attraverso i telegiornali. Poi, ancora, ho pensato che, malgrado sapessi che fosse stata scattata nel 2012, questa foto poteva essere stata scattata in un qualsiasi altro momento dall’introduzione del colore. A riprova, evidentemente, del peso della storia collettiva sulla nostra soggettiva capacità interpretativa di ciò che ci circonda, collettiva e omologante, nel bene e nel male.

La tragedia che stanno vivendo, realmente, quegli uomini della foto è la tragedia che vive nei nostri peggiori incubi. La nostra vita reale che scorre in un’agiata monotonia diurna si regge sulla quotidianità, notturna e onirica, che è fatta di incubi. La nostra vita reale diurna, che vive della nostra politica interna, vive di quella politica estera che si alimenta dei nostri sogni peggiori.

La foto è stata scattata da Paul Hansen in Palestina, nella striscia di Gaza. Racconta il funerale di due bambini Suhaib e Hijazi, di due e tre anni, portati come oggetti di sacrificio dagli zii. Zii che hanno sul volto incisi i segni di una plastica disperazione.
Quello che colpisce di questa foto è la stradina, stretta, angusta in cui si accalcano gli uomini di Gaza in processione. E che, nello scatto del fotografo, assurge a immagine del tunnel imboccato dall’umanità tutta. La luce rimbalza sulle pareti delle case che chiudono ai lati la stradina. La luce è altrove e quello che ne arriva sbozza l’esistente evocando la tenebra. Il dolore è massimo, prevale l’idea di non avere un futuro, sacrificato e imbustato nel bianco delle lenzuola che avvolgono i due piccoli martiri. Il futuro è innocente, vittima del buio del passato che si appropria della luce che rimbalzando tenta di sfuggirgli.
Il funerale a Gaza è una processione. E per i cristiani la processione è il venerdì santo. Ma il venerdì santo si sa come le cose andranno. Dio vincerà la morte. La luce squarcerà la tenebra, la verità il peccato dell’umanità. Qui, a Gaza, nella foto, non c’è nulla di tutto questo. Non c’è un dopo a quello scatto. La plasticità di quei volti fa pensare a un lamento eterno, a una condizione di contrappasso dantesca. Immutabile. Incapace di generare un dopo, che non sa raccordarsi a un prima.



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