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Come cambia il rapporto tra laici e cattolici. Le parole di Angelo Scola

Riproponiamo l’intervista all’allora Cardinale Patriarca di Venezia ,Angelo Scola, a cura di Michele Guerriero, pubblicata sul numero agosto-settembre 2007 della rivista Formiche

“Lo Stato non può essere indifferente ai valori della tradizione prevalente cui esso fa storicamente riferimento”, è uno dei passaggi salienti di questa intervista con il Cardinale Patriarca di Venezia, Angelo Scola.

Il Patriarca di Venezia si concentra sull’evoluzione del rapporto tra laici e cattolici in corso nel nostro Paese. Lo fa, tra l’altro, riconoscendo un importante ruolo anche a tradizioni di stampo avverso al Cristianesimo, come l’Illuminismo: “La modernità, soprattutto l’Illuminismo, ha così dato scacco a certa deriva ideologica che riduce la verità rivelata unicamente a un sistema di proposizioni concettuali da cui dedurre i singoli aspetti della realtà. Dall’altra parte però la modernità ha potuto costringere il soggetto cristiano a una maggiore autenticità grazie al nucleo essenziale e vitale della stessa fede cristiana, cioè il principio della differenza nell’unità, che vive nel mistero della Trinità e trapassa nella storia per divenire principio di comprensione e valorizzazione di ogni differenza”.

Patriarca, come si concilia la post-modernità e la secolarizzazione con il risveglio del senso religioso al quale assistiamo nella nostra epoca?
Negli anni del dopoguerra cominciò a diffondersi la previsione, poi smentita dai fatti, che nel mondo contemporaneo le religioni avrebbero perso la propria rilevanza sociale e politica. Ci si aspettava che l’uomo non avrebbe più avuto bisogno della religione, che il processo di secolarizzazione sarebbe sfociato nel cosiddetto “mondo mondano”. Invece siamo di fronte a quello che io definisco il “sacro selvaggio”: basti guardare all’incidenza delle sette diffuse in tutto il pianeta, alla ricerca delle più disparate forme di spiritualità. Aveva rilevato questo André Malraux con la sua espressione provocatoria: “Il XXI secolo sarà religioso o non sarà”, sulla prima parte della quale mi trovo d’accordo. Perché il senso religioso è una dimensione essenziale dell’esperienza elementare dell’uomo. Non si potrà mai arrivare a sopprimerlo dal cuore dell’uomo. Il problema è che questa religiosità che oggi si presenta come selvaggia o dialettica, ha bisogno di essere investita da una vera fede.
Ha bisogno dell’avvenimento di Gesù Cristo, della sua Persona, per mostrare all’uomo che non può compiersi da solo, perché ha bisogno dell’Altro, ha bisogno del Mistero. Questa dimensione e questa ricerca di senso che giace al fondo di ogni uomo, non può essere rimossa perché è parte essenziale dell’essere uomo.

Lei ha parlato in alcune occasioni di “nuova laicità”, come obiettivo da raggiungere in Italia. In cosa consiste questo nuovo concetto?
La rapida transizione che stiamo vivendo nel passaggio epocale dalla modernità al cosiddetto post-moderno, che ha nella globalizzazione, nella civiltà delle reti, nell’imponenza delle scoperte biotecnologiche e nel processo di meticciato di civiltà e di culture le espressioni più clamorose, ci sta imponendo un ripensamento della categoria di laicità. È la società stessa in cui viviamo, una società plurale, che ci manifesta il bisogno di una nuova laicità, cioè di uno spazio nel quale tutti possano portare la propria idea di vita buona come proposta alla libertà altrui e, nel dinamismo del dialogo tra tutti i soggetti in campo sui singoli contenuti di valore, attraverso un confronto sempre aperto tra ermeneutiche diverse, il popolo possa arrivare a decidere la via migliore da intraprendere. Perché la società civile non è una somma di individui, è una trama di relazioni di riconoscimento reciproco tra i soggetti in campo ed è animata da corpi intermedi primari, come la famiglia e le comunità di prossimità, e corpi intermedi secondari o derivati, ma anch’essi decisivi. Una nuova laicità si fonda sul dialogo, sulla reciproca narrazione della propria soggettività, a un tempo personale e sociale, a partire da ciò che si ha in comune come beni di carattere materiale e spirituale. È un dialogo in vista di un continuo e progressivo reciproco riconoscimento delle differenze da parte di identità sempre in relazione.

Il dibattito continuo in Italia tra laici e cattolici è una delle conseguenze di una nuova dialettica tra Cristianesimo e post-modernità?
Quello cui assistiamo oggi è un passo successivo al risultato portato dalla dialettica tra Cristianesimo e modernità. La modernità ha condotto il Cristianesimo a esplicitare rigorosamente le conseguenze della tanto salutare quanto necessaria distinzione tra religione e politica. La modernità, soprattutto l’Illuminismo, ha così dato scacco a certa deriva ideologica che riduce la verità rivelata unicamente a un sistema di proposizioni concettuali da cui dedurre i singoli aspetti della realtà.
Dall’altra parte però la modernità ha potuto costringere il soggetto cristiano a una maggiore autenticità grazie al nucleo essenziale e vitale della stessa fede cristiana, cioè il principio della differenza nell’unità, che vive nel mistero della Trinità e trapassa nella storia per divenire principio di comprensione e valorizzazione di ogni differenza. In questo quadro si sono potute sviluppare in Occidente la pratica e la teoria della democrazia, intesa quale libera e ordinata convivenza di cittadini, corpi intermedi e popoli che danno vita a una società civile adeguatamente servita dallo Stato.
Ma non va dimenticato che l’esito prezioso di tale dialettica, Cristianesimo-modernità – l’adeguata distinzione tra fede religiosa e azione politica – ha pagato un prezzo alto: la rimozione della religione dalla sfera pubblica della società civile.
Qui si innesta il dibattito di oggi: diviene fondamentale ripensare la rilevanza pubblica della religione mantenuta nella sua piena identità e affermare la necessità di una sfera pubblica plurale e religiosamente qualificata in cui le religioni svolgano un ruolo di soggetto pubblico, ben separato dall’istituzione statuale e ben distinto all’interno della stessa società civile.

Entriamo nel merito del rapporto tra religione e politica: che modello di Stato e quale tipo di libertà religiosa immagina? Lo Stato per garantire tutte le posizioni non dovrebbe essere neutrale?
Lo Stato, in quanto istanza superiore, deve essere laico, cioè non deve identificarsi con nessuna delle parti in causa, dei loro interessi e delle loro identità culturali, siano esse religiose o meno. Ma questo non significa che debba essere neutrale o indifferente alle identità e alle loro culture. Lo Stato non può essere indifferente ai valori della tradizione prevalente cui esso fa storicamente riferimento, ai grandi valori che stanno a fondamento della stessa convivenza democratica, per esempio, delle libertà civili e politiche, della convivenza dialogica, del rispetto delle procedure per il consenso, ecc.
In questa luce si comprende che la laicità dello Stato, in tutte le sue istituzioni, è un esercizio di promozione e tutela del diritto, come anche di positiva valorizzazione di tutti i soggetti in campo, mediante il coinvolgimento nella relazione di riconoscimento. Il riconoscimento infatti rigenera continuamente le identità e le pone al riparo da ogni integralismo, mentre impedisce che le differenze portino a esclusioni conflittuali.

Spesso i laici parlano di ingerenza delle gerarchie nella vita politica di tutti i giorni, asserendo che le Conferenze episcopali degli altri Paesi europei non intervengono con la stessa forza della nostra Cei. Corrisponde a verità questa analisi?
Quella cristiana è una proposta, non è mai ingerenza. A me sembra che i vescovi italiani, anche per l’attenzione che hanno come pastori verso la totalità dell’esperienza umana elementare comune a tutti gli uomini, propongano la visione cristiana di questi aspetti e problemi di fondo.
Poi i cattolici, come tutti i cittadini, la giocheranno nel pubblico confronto e toccherà alla fine all’autorità statuale, rispettando le procedure, riconoscere la tradizione prevalente. A me, francamente, questo discorso della presunta ingerenza della Cei nella vita politica italiana sembra del tutto fuori luogo.

Oggi si tende a superare tutto, sulla scorta dell’insegnamento di Nietzsche – secondo il quale il super uomo va oltre l’uomo –: perché l’uomo post-moderno tende a non considerare, se non derubricare, il limite come esperienza “umana”?
Anche se sepolte sotto una montagna di detriti, alla fine spuntano le domande ultime dell’uomo: che cos’è l’uomo? Qual è il significato del dolore, della morte che continuano a sussistere malgrado il progresso? Anzi queste domande sono uscite dalle aule scolastiche e nella società delle reti, arrivano a coinvolgere capillarmente il popolo. Il connubio scienze-tecnologie, la precarietà in cui abbiamo lasciato precipitare lo Stato del pianeta, il radicalizzarsi di una miseria endemica nel Sud del globo, fanno percepire a larghissime masse di uomini che alle soglie del XXI secolo è in gioco l’esistenza stessa di ogni specie animata in senso letterale. Lo scontro non è tra civiltà, e tanto meno tra religioni. Non è una guerra tra diversi di razza, popolo o cultura. La linea di demarcazione del conflitto passa dentro ciascun uomo, ciascun corpo intermedio, per estendersi alla società civile in tutte le sue dimensioni locali e mondiali. Ogni giorno in ciascuno di noi irrompe con forza l’interrogativo: “Chi mi assicura?”. “Chi alla fine assicura l’umanità?”.
Al fondo di tali domande, emergono come tratti dominanti dell’uomo post-moderno desiderio di infinito e libertà. E qui siamo posti di fronte a una singolare coincidenza: Gesù a più riprese fa esplicitamente leva proprio sul desiderio di infinito e sulla libertà come sui due fattori chiave per proporre agli uomini il Suo Vangelo: “Se vuoi essere compiuto” (Mt 19, 21), “sarete liberi davvero” (Gv 8, 36). L’annuncio cristiano, lungi dall’essere inattuale, si trova più che mai sulla stessa lunghezza d’onda della domanda dell’uomo post-moderno non solo perché desiderio e libertà sono costitutivi del cuore dell’uomo come tale e quindi di quello di ogni tempo, ma proprio perché il modo radicale con cui Gesù parla di desiderio e di libertà incontra la radicalità con cui questa doppia istanza è percepita oggi da uomini e donne di tutte le età.
La straordinaria coincidenza tra annuncio cristiano e anelito dell’uomo di oggi vive però dentro un inedito travaglio. Non c’è aspetto della stessa esperienza elementare dell’uomo, legata al suo essere uno di anima-corpo, di uomo-donna, e di individuo-comunità, che non appaia oggi come “terremotato”. Ma l’attualità radicale della promessa di Cristo a proposito di desiderio e di libertà ci consente di guardare all’epoca post-moderna non come a un’epoca di crisi, ma come a un’epoca di travaglio. Ripetute e violente sono le contrazioni e le doglie, ma restano attraversate dalla prospettiva gioiosa del parto.

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