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Barack Obama e i misteriosi rapporti con Tel-Aviv

Pubblichiamo un articolo del dossier “Il ritorno di Obama in Medio Oriente” dell’Ispi

L’ultima volta che Obama si è interessato veramente della situazione israelo-palestinese è stato probabilmente verso il 2008, quando da senatore dell’Illinois si è recato in Terra Santa e ha visitato il Muro del Pianto. Era parte della campagna per le elezioni presidenziali, in un tour promozionale che includeva delle “cover” delle gesta politiche di grandi presidenti del passato – e non è mancato un discorso a Berlino, a evocare lo storico «Butta giù questo muro» rivolto da Ronald Reagan a Mikhail Gorbachev nel 1987.

Ma dal momento dell’elezione, il deterioramento dei rapporti tra Stati Uniti e Israele è peggiorato di mese in mese. Il “punto più basso” nei rapporti tra i due paesi è stato raggiunto la prima volta nel 2010, quando la politica di mutua ignoranza e disaccordo sulla crisi iraniana ha portato alla «peggiore crisi dal 1975, una crisi di dimensioni storiche», secondo l’ambasciatore israeliano Michael Oren. Poi, scavando un po’, il punto più basso è stato raggiunto nel 2011: «Obama sta gettando dalla finestra la storica relazione tra Israele e Stati Uniti», secondo David Parsons dell’International Christian Embassy di Gerusalemme.

Ma il fondo sembra sia stato toccato in occasione del voto di approvazione dell’ammissione della Palestina come “stato non membro” in sede Onu nel 2012. Durante votazioni simili in precedenza, gli Stati Uniti si erano opposti fermamente alle richieste palestinesi. In particolare, un’operazione tentata nel 2011 di riconoscimento come “stato membro” dell’Onu è stata bloccata dall’intenzione dichiarata di Washington di porre un veto come membro del Consiglio di Sicurezza – azione che avrebbe bloccato il procedimento. Si è svolta nel 2011 anche una votazione per l’ammissione della Palestina all’Unesco, per la quale il lavoro di lobby dei diplomatici americani era stato contro l’accettazione (la Palestina è riuscita comunque nel suo intento). Per la votazione del 2012, il disinteresse di Washington è stato totale, nonostante la pressione di Gerusalemme.

Ci s’interroga sui motivi di questo astio. Alcune fazioni conservatrici in Israele sostengono che Obama coltivi culturalmente convinzioni anti-sioniste, citando il fatto che il presidente sia stato per alcuni anni in contatto con Rashid Khalidi, professore della Columbia University e grande teorico della nazione palestinese. Il presidente nella sua “politica delle minoranze” avrebbe deciso di appoggiare le istanze degli arabi-americani, e al massimo dei gruppi ebraici americani più di sinistra, come “J-Street”.

Se però osserviamo la situazione dal punto di vista politico internazionale, il “disinteresse americano” per Israele trova spiegazioni più immediate. Il punto di partenza è la ristrutturazione della politica mediorientale nel dopo-Bush (padre e figlio). Su suggerimento del grande Zbigniew Brzezinski, già consigliere per la Sicurezza Nazionale di Jimmy Carter, Obama ha compreso fin da subito che il “processo di pace” tra Israele e Palestina non può essere risolto a Gerusalemme, ma deve essere affrontato in tutto il quadrante.

In Israele si concentrano tutte le tensioni della regione, con i vari conflitti etnici e la competizione tra potenze regionali. Gli interessi iraniani si scaricano sul Libano meridionale e su Gaza, così come l’Egitto ha sostenuto a lungo Hamas – sullo sfondo di una competizione sunnita-sciita dalle conseguenze imprevedibili. Affrontare il nodo palestinese a Gerusalemme sarebbe come se si fosse tentato di risolvere la questione della Berlino divisa a Berlino stessa – e non a Mosca. Da qui, la decisione di ripartire dalle basi del conflitto, tentando – con Hillary Clinton – di ricucire le fila del discorso geo-strategico, resettando i rapporti con la Russia e l’Iran.

Il problema è stato che l’approccio non ha funzionato. In mezzo – e non per colpa di Obama – sono intervenute altre questioni, dalle rivolte arabe alle guerre civili. A questo punto, il problema di Washington è che, comunque decida d’intervenire, rischia di dover sopportare danni politici. Sostenere Israele provocherebbe reazioni arabe diffuse (per non parlare della megalomania turca); sostenere i sauditi andrebbe contro il “processo di democratizzazione” in altri paesi e contro i russi (che sostengono le fazioni sciite, mentre i sauditi sono sunniti); sostenere l’Iran è impensabile.

La soluzione del “mistero dei non-rapporti” risiede in proprio nella questione iraniana. Gli Usa stanno negoziando un embargo verso Teheran con la partecipazione di Cina e Russia, ma ciò impone che la questione d’Israele sia lasciata in un congelatore di rapporti freddi e distanti. Israele serve a Washington come “minaccia ultima”, con la possibilità di un attacco verso le installazioni nucleari iraniane. Ciò sarebbe possibile politicamente per Washington solo se le relazioni con Gerusalemme rimanessero poco cordiali, perché altrimenti i paesi arabi addosserebbero la responsabilità di un attacco agli americani. Obama vuole cioè che il fardello politico di un’eventuale operazione militare sia sopportato da Israele – e Israele può anche stare al gioco. Sembra quasi una commedia politica, atta a mascherare interessi congiunti, che in realtà sono molto più stretti rispetto a quanto non si voglia far credere.

Stefano Casertano, Potsdam University.

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